venerdì 10 giugno 2022

UN’IMMAGINE “CHIMICA” DELLA FULIGGINE PER SPIEGARE IL COMBUSTIBILE PER AVIAZIONE SOSTENIBILE (SAF)


In tempi in cui il volume totale del combustibile per aviazione utilizzato ed il relativo quanto significativo aumento di prezzo, non costituiscono semplici dettagli, è utile spendere qualche parola per scrivere di SAF ( Sustainable Aviation Fuel). Con questo acronimo le compagnie aeree cargo e passeggeri hanno individuato la colonna portante per poter raggiungere gli aggressivi obiettivi di riduzione delle emissioni di carbonio che si sono prefissate. Per SAF si intende un biocarburante o combustibile per aviazione sostenibile, su cui molto si sta investendo in virtù, per quanto ho già detto, delle sue minori emissioni nette di carbonio. 

Allo stato attuale, grazie a svariati processi chimici, il SAF viene prodotto a partire da una varietà non indifferente di materie prime e prodotti di scarto (ma per precisione occorrerebbe anche far riferimento agli e-carburanti o e-Fuel sintetici). Sono 7 le fonti primarie che possono portare alla produzione di SAF e per l’esattezza (i) Fonti ricche di cellulosa quali i residui dell'eccesso di legno, prodotti agrari e residui forestali, (ii) Olio da cucina usato, tipicamente derivato da grasso vegetale o animale che è stato utilizzato per cucinare, (iii) Camelina una pianta robusta che cresce ovunque con un alto contenuto di olio lipidico e che richiede poca energia, mentre i suoi semi possono essere utilizzati in vari modi, dalla produzione di olio al mangime per gli animali, (iv) Jatropha, una pianta tossica I cui semi vengono utilizzati per produrre bio-diesel, (v) Alofite, un’ erba di palude, (VI) Alghe, piante microscopiche che possono essere coltivate in acque inquinate o salate, deserti e altri luoghi inospitali. Le alghe prosperano grazie all'anidride carbonica, (VII) Rifiuti solidi urbani, essenzialmente spazzatura proveniente da famiglie e imprese. Ad esempio, imballaggi di prodotti, erba tagliata, mobili, vestiti e bottiglie.


Un vantaggio indiscutibile del SAF è che brucia in modo molto più “pulito” del normale carburante per aviazione, ossia un combustibile a base di petrolio, o miscele di petrolio e combustibili sintetici dove, a seconda del tipo di aereo, abbondano cherosene o benzina. Questo perché circa il 20% / 30% del normale carburante per aviazione è costituito da idrocarburi aromatici come naftalene ed etilbenzene, che bruciando non completamente, formano più fuliggine di quanto non avvenga tipicamente con alcani lineari, ramificati e cicloalcani. La buona notizia è che la maggior parte delle metodiche chimiche per produrre SAF non da luogo a composti aromatici, ad eccezione dell'idro termolisi catalitica (CHJ).

Siamo a cavallo quindi! Non proprio, perché dal momento che i composti aromatici del normale carburante per aviazione fanno gonfiare le guarnizioni e altre parti in gomma o plastica degli aerei, i motori e le componenti strutturali adibite al rifornimento sono stati progettati e dimensionati in origine per poter far fronte e prevenire questo inconveniente. Ciò implica che, almeno per il momento, il SAF necessità di un “plus” di idrocarburi aromatici ottenibile ad esempio per miscelazione con una sia pur minima quantità di normale carburante per aviazione.


martedì 7 giugno 2022

TRIALS CLINICI, COSTI PER SOSTENERLI, DECENTRALIZZAZIONE, RIPERCUSSIONI SUL PREZZO DEL FARMACO E…”MA NON CIELODICONO”.


Lo sviluppo di farmaci comporta sempre un alto rischio che le cose non vadano sempre esattamente per il verso giusto. Una statistica comunemente citata rivela che il 90% dei programmi fallisce durante la fase di sperimentazione clinica, principalmente a causa della mancanza di una comprovata efficacia clinica. Solo negli Stati Uniti, ogni anno, vengono proposti e registrati migliaia di studi e se ci si limita a voler vedere la parte del bicchiere mezzo vuoto, già sappiamo a priori che quindi, ogni anno, potremo raccontare di una vasta gamma di risultati deludenti tra cui scegliere per poi scriverne la qualunque in termini di impatto negativo. 

Impatto negativo sui pazienti, ad esempio, dal momento che se lo sviluppo del farmaco fallisce, adiòs all’approvazione di “quella” terapia, per “quella” patologia. Impatto negativo sulle motivazioni e gli sforzi dei ricercatori e sviluppatori di quei farmaci, sul cui programma si è investito a manetta ( e non parlo d denaro ) facendo affidamento sul raggiungimento di un risultato positivo (https://ilgeneegoista.blogspot.com/2022/01/il-dietro-alle-quinte-che-ha-condotto.html).

Omettendo di citare l’alea per cui, a volte, potremmo assistere ad un riassestamento di una determinata classe di farmaci che va a consolidarsi in nuove aeree terapeutiche. All…been there, done that.


Ed ecco che quindi, tanto per dare un esempio di concretezza, quelli che elenco di seguito, rappresentano i 10 “flop” più significativi degli studi clinici del 2021. (https://www.fiercepharma.com/clinical-data). Mi spiace sinceramente se chi si prenderà la briga di andarli a leggere, si troverà di fronte a questo warning cercando di leggere l’articolo: “You are not authorized to access this page”.

Rimane sempre e comunque, per alcuni, l’alternativa di contare sino a 1.000 prima di “sparare” pretestuose, quanto inutili illazioni prima di sciorinare i soliti luoghi comuni sull’industria farmaceutica che sempre e comunque viene tutta identificata come Big Pharma, di cui, almeno il sottoscritto, ne ha le tasche piene, nonostante il tamburellante appoggio salvifico della ormai consolidata, quanto anch’essa “melliflua” ed impreparata fanbase. ( stranamente poi alcuni “personaggi” ce li ritroviamo, nemmeno tanto miracolosamente, quanto per interessi personali o per frutto di mercateggiamenti, seduti su comode poltrone, dalle più blasonate alle più “provinciali”  ma che in ogni caso dovrebbero servire per fare gli interessi pubblici di coloro che non hanno voce in capitolo). A tutto ciò corrisponde sempre una check list positiva o negativa? Non lo so, fate voi in base alle personali esperienze, ma siate onesti con voi stessi.

Quello che mi preme sia chiaro e che cito traducendo è: “Non c'è bisogno di dire che è molto difficile inventare nuovi farmaci. I farmaci rivoluzionari, e anche i drug candidates “miracolosi”, sono infatti rari, perché la ricerca farmaceutica è un problema di ottimizzazione multi-parametro: devono essere soddisfatte simultaneamente molte condizioni affinché un nuovo composto manifesti la capacità di migliorare seriamente le vite dei pazienti" (https://pubs.acs.org/doi/10.1021/acs.jmedchem.7b01445).


Vaccino Ad26.Mos4.HIV di J&J - Indicazione HIV

Bintrafusp alfa di GSK-Merck KGaA - Indicazione tumori multipli solidi

Vaccini e terapie COVID-19 (https://www.fiercebiotech.com/special-reports/2021s-top-10-clinical-trial-flops)

GLPG3970 di Galapagos-Gilead - Indicazione Artrite reumatoide e Colite ulcerativa

Gosuranemab di Biogen - Indicazione Alzheimer

Ligelizumab di Novartis - Indicazione Orticaria spontanea cronica

Il pevonedistato di Takeda - Indicazione Sindrome mielodisplastica e leucemia mieloide acuta

Rilzabrutinib di Sanofi - Indicazione Pemfigo volgare

Il tominersen di Roche-Ionis - Indicazione malattia di Huntington

Verdiperstat di Biohaven - Indicazione Atrofia multisistemica


Volendo spendere due parole a commento di questo elenco, ciò che spicca rispetto a quanto avvenuto negli anni precedenti è il numero molto alto di impasse nello sviluppo di farmaci relativi all’area COVID-19; cosa che non mi stupisce più di tanto dal momento che lo sviluppo molecolare in questo particolare settore, è iniziato solo nel 2020, quando la grave natura della pandemia, è diventata lampante per tutti.

A costo di risultare ripetitivo, inevitabile vista la cocciutaggine di molti, appare evidente come le indicazioni di questi farmaci spazino, oltre i vaccini, dal trattamento dell’HIV a farmaci per i trattamento del cancro, passando per le malattie neuro-degenerative e le malattie immunologiche/infiammatorie. Ciò implica che risulti impegnata una vasta gamma di aziende, da quelle biotecnologiche più piccole ai gruppi appartenenti a Big Pharma. Chiara abbastanza il concetto?


In questo articolo (https://www.science.org/content/blog-post/awful-trials?fbclid=IwAR1_oRMWs7H4I0hgJbhKbk5UGNuhSPhur7zq8kom2OVKmTIk1tUQpY2Tijg&) che andrebbe letto da chiunque e con attenzione data la “semplicità” del linguaggio, Derek Lowe scrive: “"Un grosso problema con queste storie è che pochissimi capiscono come funziona un trial clinico, o come funziona la statistica per interpretarlo. Così ogni sorta di dati inaffidabili vengono presentati come se fossero completamente solidi e indubitabili, e sono "risultati" da "trial" miseramente controllati, di potenza statistica insufficiente, male interpretati, etc.

E poi ci sono quelli che non reggono assolutamente. Quelli che sono convinti che l'ivermectina è un farmaco miracoloso contro il coronavirus citano meta-analisi di dati di trial clinici per supportare la loro tesi, ma i risultati più corposi dentro quelle meta-analisi sono ormai crollati…………….Sfortunatamente, le convinzioni appassionate non hanno alcun potere per poter curare la gente da una malattia.”

Ma non è detto che, proprio i trials clinici ad esempio, il cui costo è in costante aumento per svariati motivi, possano rappresentare un elemento di spesa nell’ambito dello sviluppo farmaceutico, anche se, soprattutto il Italia, quando si inizia a parlare di spesa farmaceutica, si aprono squarci di fantasia inaudita con tanti saluti al buon senso e dove si fa a gara per confondere le idee a proposito di chi guadagna su cosa, e come.

Fortunatamente, si sono individuate nuove vie e la “decentralizzazione” dei trials clinici pare essere in grado di ripagare dal punto di vista finanziario e non solo (https://www.fiercebiotech.com/cro/decentralized-studies-offer-financial-benefits-says-new-study).


Ciò detto, il grottesco è che si taccia su quanto chiarito dal Presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi, e difficilmente smentibile (nel caso ci fosse qualche illuminato in grado di farlo, sarei ben felice di ascoltarne le argomentazioni, mentre le opinioni le confinerei ad altri lidi) nel corso dell’International Clinical Trials Day: "Le aziende farmaceutiche si fanno carico di tutte le spese connesse agli studi, come ospedalizzazione, farmaci ed esami diagnostici. E assicurano così al Servizio Sanitario Nazionale importanti risorse e minori costi. Ogni euro investito in Italia dalle imprese, secondo un’indagine di Altems, genera un beneficio complessivo per il Ssn pari a 2,77 euro”. 

Occorre quindi saper cogliere la palla al balzo e far si che l’Italia si collochi in una posizione di rispetto nella R&S clinica. Ovviamente tutto ciò avrà un “prezzo” da pagare. Nel caso non lo si facesse si correrebbe il rischio di essere sopravanzati da altri Paesi, ed a patirne non sarebbe solo il SSN e relativi investimenti, ma l’insieme tutto degli incolpevoli pazienti. Tradotto, dovremo diventare sempre più competitivi, cercando di attirare una buona fetta di quegli oltri 1.200 miliardi di euro che saranno investiti nel mondo in R&S tra il 2021 e il 2026.

Ci sono treni che passano ad orari che non vengono sempre pre annunciati; o li prendi al volo oppure se ti gira male ti attrezzi per raggiungere a piedi la meta, anche se in questo caso non sarebbe esattamente proprio un gioco da ragazzi. Che poi, per salire su quel benedetto treno basterebbe poi solo creare le condizioni migliori per attrarre gli investimenti e ottimizzare e rendere più flessibili le procedure che vengono richieste per lo sviluppo di nuovi farmaci, attraverso, e sarebbe l’ora, il varo di quei decreti capaci di rendere attuativo il Regolamento europeo sulla Sperimentazione Clinica. (https://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=104924). 


venerdì 3 giugno 2022

TRA IL DEBUNKING DEL LATTE ARTIFICIALE, INFLUENCER E GLI SFORZI PER RENDERLO SEMPRE PIU’ SIMILE A QUELLO UMANO.


Non so quanti di voi ricorderanno il post di Chiara Ferragni che pubblicizzava anni fa il latte artificiale, e che a seguito delle infinite polemiche scatenatesi, venne successivamente rimosso. Infatti, su quel post, rigorosamente scritto in lingua inglese, (presumo che avesse un suo perché), si riversarono come uno tzunami, commenti dai toni che faccio fatica a definire “duri”, e che rammentavano alla neo-mamma come, In Italia (e lo sottolineo) fosse illegale dal 2009 pubblicizzare latte in polvere per bambini piccoli. Va anche ricordato però che, ad esempio negli Stati Uniti, non esistono leggi che regolano questo tipo di pubblicità, anzi! ( https://www-fda-gov.translate.goog/news-events/press-announcements/fda-encourages-importation-safe-infant-formula-and-other-flexibilities-further-increase-availability?_x_tr_sl=en&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it&_x_tr_pto=op,sc). Lungi dal sottoscritto impelagarmi in questioni legali, per cui necessiterei di un corso di alfabetizzazione, e benché lessi a suo tempo come, in riferimento ad eventuali “provvedimenti”: «esperti contattati hanno affermato che è difficile stabilire con esattezza i conflitti di competenze, visto che Ferragni & partner vivono tra Italia e Usa e si tratta di rebus giuridici complicati da sciogliere anche per i giudici eventualmente chiamati a pronunciarsi», e premesso che la nota influencer non necessita certamente di alcun avvocato difensore, mi domando perché ai più, non balenò anche solo l’ipotesi, che la Sig.ra Ferragni, molto semplicemente, avesse tentato senza ricorrere ad ambigui battibecchi ad personam e “naturalmente” senza ottenere alcun successo, di porre l’attenzione su un argomento molto “sensibile”. 

Del resto quante sono le cose che si leggono in giro da far venire la pelle d’oca e che vengono sostenute a prescindere come fossero Vangelo? Ma niente! Pare proprio che promuovere temi senza dividersi tra noi e loro, tra buoni e cattivi, sia impresa titanica. Ed allora, provocatoriamente mi domando quand'è che con un post  e con una semplice frase, peraltro scritta in quella lingua secondo la quale non mancano argomentazioni scientifiche da parte di esperti e studiosi del settore, diventa ingannare il pubblico? E per chi facesse fatica a comprendere, è probabile che la menzione del nome commerciale di un prodotto, nelle modalità in cui è avvenuta, rappresenti soltanto una virgola, all’interno di un contesto su cui varrebbe la pena dibattere, confrontarsi e magari, perché no, aggiornarsi e documentarsi. Non credo sia utile a nessuno compiacersi di feticci ideologici, vantandosi di avere la Verità in mano, senza lasciare spazio al dubbio o alle altre motivazioni. 


Ciò detto, ma è proprio vero che “Breast is best”’ sempre e comunque? 

Ci sono un’infinità di ragioni per cui un genitore potrebbe scegliere di nutrire un neonato esclusivamente con un latte artificiale o integrandolo come supplemento al latte materno. Quel che è certo è che molti genitori, via via che si procede con l’allattamento, scoprono che il loro piccolo, mostra necessità che non sono sempre soddisfatte appieno dall’assunzione del solo latte materno.

Tuttavia, come è noto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) raccomanda: “l'allattamento in maniera esclusiva fino al compimento del sesto mese di vita. È importante, inoltre, che il latte materno rimanga la scelta prioritaria anche dopo l'acquisto di alimenti complementari, fino ai due anni di vita ed oltre, e comunque finché mamma e bambino lo desiderino”.


Sta di fatto che così sui due piedi, sullo 0 a 3 di una partita in cui certamente non figura seduta sulla panchina del team Ferragni & Co, Sarah Sobik, pediatra dell'Arkansas Children's Nutrition Center, se ne esce con alcune considerazioni che rimettono la palla decisamente in gioco. Ad esempio sottolinea come molte neo-mamme abbiano più spesso di quanto si creda, difficoltà a produrre abbastanza latte per i loro bambini o non ricevano un adeguato supporto per aiutarle ad allattare al seno. "L'allattamento al seno non è proprio una passeggiata” - dichiara - “ e raramente è facile per qualcuno." Per non scordare che alcuni bambini hanno uno stomaco particolarmente sensibile o soffrono di malattie metaboliche che richiedono l’ausilio di una dieta speciale. Ed ecco che, stando così le cose, derubricare il tutto a mera speculazione pubblicitaria e di visibilità, per tutti questi motivi e, per come vedremo nel prosieguo, non solo, il latte artificiale può essere una soluzione utile.


Nell’ambito dell’allattamento artificiale, fatto salvo l’assunto che l’aspetto più importante è garantire che i bambini ricevano un'alimentazione adeguata, grazie all’impiego di una formulazione sicura e stabile, gli svariati latti artificiali vengono venduti in polvere in virtù di una apparentemente infinita varietà di formulazioni per poi essere ricostituiti con acqua prima dell'uso. Come ovvio che sia, molti marchi pubblicizzano ingredienti specifici, ma la maggior parte di questi contiene gli stessi componenti di base. 

Concettualmente ma non solo, il latte artificiale è concepito come un sostituto completo del latte umano in grado di soddisfare tutte le esigenze nutrizionali dei bambini di età inferiore ai 12 mesi. A livello internazionale, i componenti richiesti per le formule sono stabiliti dal Codex Alimentarius (https://www.fao.org/fao-who-codexalimentarius/sh-proxy/en/?lnk=1&url=https%253A%252F%252Fworkspace.fao.org%252Fsites%252Fcodex%252FStandards%252FCXS%2B72-1981%252FCXS_072e.pdf), un insieme di linee guida e codici congiunti di buone pratiche per gli standard alimentari supervisionato dall'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura e dall'OMS. Viene anche concessa l’opportunità che i singoli Paesi possono stabilire anche linee guida aggiuntive.

In totale, il codice elenca più di 30 ingredienti nutrizionali necessari per il latte artificiale, comprese vitamine e minerali, ma i tre costituenti principali restano i grassi, le proteine ed i carboidrati, ovvero i mattoni fondamentali di cui i piccoli hanno bisogno per crescere e svilupparsi.

Sempre secondo la Sobik, le formulazioni maggiormente utilizzate dovrebbero essere quelle a base di proteine del latte vaccino, con siero di latte e caseina. Saranno poi gli oli vegetali a rappresentare la fonte dei grassi ed il lattosio quella dei carboidrati.

Il codice specifica che, per una tipica razione di latte artificiale per lattanti si dovrebbero avere 1,8–3,0 g di proteine, 4,4–6,0 g di grassi e 9,0–14,0 g di carboidrati (in particolare lattosio o glucosio) per 100 kcal. L’FDA statunitense ha raccomandazioni molto simili.


Oltre ai principali elementi costitutivi della loro dieta, i bambini hanno bisogno di integratori di vitamine e minerali. Del resto comunque, anche i bambini nutriti con latte umano hanno bisogno di una fonte secondaria di vitamina D, che rappresenta un nutriente presente nel latte artificiale, insieme ad altri co-fattori ed elettroliti. Di questi micro nutrienti, sempre secondo la Sobik, il ferro è uno dei più importanti. Ciò è causato dal fatto che entro poche settimane dalla nascita le riserve di ferro tendono ad esaurirsi e quindi i bambini necessitano di una integrazione nella loro dieta. Negli Stati Uniti, la FDA richiede che tutti i latti artificiali siano massimizzati con 0,15 - 3,0 mg di ferro per 100 kcal, ovvero una forbice raccomandato dall'American Academy of Pediatrics. Il Codex Alimentarius invece, fissa il ferro minimo a 0,45 mg per 100 kcal.

Non vivendo sulla Luna, la Sobik non esita a riconoscere che il latte artificiale è ancora lontano dal ricalcare completamente la composizione del latte prodotto dall'uomo, dal momento che contiene anche ormoni della crescita, fattori immunologici e molti altri composti utili per aiutare un bambino a crescere. 


Feticci concettuali permettendo, comunque, anche il latte materno non è del tutto esente da problematiche. Non si dovrebbe ignorare, ad esempio, il dato di fatto che un possibile grattacapo del latte materno sarebbe che questo, in termini di composizione, risulterebbe sempre diverso da bambino a bambino. Questo perché il latte umano include i microbi e gli anticorpi di un genitore, che si differenziano nel corso della vita del bambino se non addirittura anche nel corso di una singola poppata. Chissà! Sarà forse improbabile realizzare una formula che riassuma completamente tutte le qualità del latte umano, eppure, rebus sic stantibus, i ricercatori stanno lavorando attivamente per colmare il divario tra il latte artificiale e il latte umano. Studi recenti indicano che un modo per farlo sarebbe quello di includere l'acido docosaesaenoico (DHA) e l'acido arachidonico (ARA), due acidi grassi polinsaturi a catena lunga che si trovano nel latte materno. 


Lo afferma Jim Richards, un ricercatore nutrizionista nonché vicepresidente della DSM, un'azienda che produce alcuni degli ingredienti maggiormente utilizzati negli alimenti per lattanti. I ricercatori hanno scoperto che sia il DHA quanto l’ARA, sono importanti per lo sviluppo del cervello durante il primo anno di vita (Dev. Psychobiol. 2018, DOI: 10.1002/dev.21780) e sono anche associati ad una maggiore acuità visiva nei bambini. (https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/dev.21780 - https://academic.oup.com/ajcn/article/91/4/848/4597288). La DSM li ottiene per fermentazione dalle alghe, quindi una fonte vegetale e sostenibile, per poi includerli negli alimenti per lattanti. Il DHA è spesso elencato chiaramente sull'etichetta del latte artificiale, mentre il Codex Alimentarius stabilisce che l'ARA dovrebbe essere incluso almeno in una concentrazione equivalente. Sebbene queste molecole siano utili per i bambini, la Sobik non manca di rimarcare come i latti artificiali che includono DHA e ARA, rappresentino in realtà un "bonus" per i genitori dal momento che i bambini sono in grado di  produrre autonomamente il proprio DHA a partire dall'acido α-linoleico. A scanso di equivoci comunque, sia il Codex che la FDA richiedono che tutti i latti artificiali contengano acido α- e γ-linoleico.


Insomma, che la certezza che tutte queste informazioni fossero e siano tuttora disponibili ad una ampia platea di mamme, appare sempre meno granitica, deinde de hoc satis. Che le polemiche fine a se stesse, (leggasi il post), continuino a produrre solamente risultati “imbarazzanti” è ormai diventato un mantra che non si capisce bene a chi possa giovare. E la cosa davvero preoccupante è che prima di lanciarsi alla carica lancia in resta, sarebbe il caso di mettere il naso la dove non si conosce senza supporre.

Sarebbe curioso, ad esempio, ma ancor più utile sapere in quanti, sempre in tema di latte artificiale yes or not, abbiano cognizione a riguardo degli oligosaccaridi del latte umano noti come HMO. Steven Townsend, un chimico organico della Vanderbilt University, ha diretto un team di ricerca che ha dimostrato come questi carboidrati complessi agiscano come probiotici nel latte umano, favorendo lo sviluppo di flore batteriche benefiche nell'intestino dei bambini e conseguentemente un rafforzamento del sistema immunitario. Ciò che rende la questione non proprio paritaria è che le concentrazioni di queste diverse molecole di zucchero variano in base ad una serie di fattori, tra cui la genetica di un genitore e l'età del bambino.


Resta il fatto, non propriamente sulla bocca di tutti che più o meno nello stesso periodo del post “incriminato”, la BASF, una delle maggiori compagnie chimiche al mondo, se ne usciva con un comunicato in cui si annunciava che sarebbe stata in grado di produrre, tramite fermentazione il 2'-fucosillattosio, l’oligosaccaride più abbondante nel latte materno tra i vari ( ne sono stati contati circa 200) oligosaccaridi del latte umano (HMO) e che per l’appunto, ricevette l’approvazione da parte della Unione Europea. Non proprio una quisquilia  dal momento che l’aggiunta di HMO al latte artificiale vorrebbe dire ridurre il divario funzionale con il latte materno. Ed il motivo è semplice visto che gli HMO favoriscono una risposta immunitaria equilibrata modulando la reazione infiammatoria e prevenendo l’azione di agenti patogeni a livello intestinale (https://cen.acs.org/business/food-ingredients/BASF-supply-human-milk-oligosaccharide/96/i31).


Al sottoscritto, di tessere l’elogio promozionale dei vari latti artificiali interessa da 0 a meno infinito, mentre riprendere i passi in avanti che la ricerca sta compiendo in questo settore mi garba eccome, se non altro per colmare un gap “culturale” con il latte umano che appare, stando alle evidenze mediatiche, come un totem su cui è improponibile anche solo disquisire. Sarebbe quindi da stolti tacere come Townsend, che parimenti alla Sobik non ha residenza satellitare, non esiti a precisare che l’estrazione e l’introduzione di questo zucchero relativamente semplice individuato tra l’intero mix di HMO non sia sufficiente per colmare completamente il divario tra latte artificiale e latte umano.

E prima che salti fuori dal sottobosco il “…si vabbè, però l’acqua”, meglio spendere due parole anche su quello che effettivamente non è un semplice dettaglio. Ebbene sì, al latte artificiale in polvere, la mamma deve aggiungere acqua purificata e sterile per essere miscelato correttamente (impresa tutt’altro che ciclopica). Motivo?… Se il latte artificiale non risultasse completamente omogeneo, il neonato non sarebbe in grado di digerire tutti i nutrienti, vanificando così qualunque miglioramento acquisito nel tempo con la ricerca.


Volendo mettere un punto a questa tematica, qualunque opzione un genitore scelga per nutrire il proprio figlio - latte umano, latte artificiale o un mix di entrambi - c’è da augurarsi che nessuno si imbatta in qualche muro di gomma che ragioni a prescindere, ma che piuttosto venga aiutato a scegliere quella che, caso per caso, potrebbe essere l’opzione migliore. La priorità numero 1 rimane sempre e comunque quella di assicurarsi che il bambino cresca bene e si sviluppi, e ciò può avvenire ANCHE grazie all’impiego dei latti artificiali. All’essere lasciati in balia della qualunque, ogni qual volta si procede “contro quanto codificato dal sistema”, ci si può anche adeguare, ma l’accettarlo è tutto un altro paio di maniche, e fortunatamente, ci stiamo avviando verso l’estate.;))



martedì 31 maggio 2022

TRA VAIOLO UMANO E VAIOLO DELLE SCIMMIE UN POURPARLER LIMITATO SU UN TRIS DI ANTIVIRALI


E venne il tempo anche del vaiolo delle scimmie, con la sua immancabile striscia quotidiana su vari TG, Radio ed affini, dopo che sono stati recentemente confermati alcuni focolai non in zone tipicamente confinate nell'Africa centrale e occidentale ma bensì, inaspettatamente, in una ventina di Paesi tra Europa (Italia compresa), Stati Uniti, Canada e Australia ecc. per un totale di circa 600 casi documentati.

Il vaiolo delle scimmie, nell’uomo, si manifesta come una zoonosi causata dal virus del vaiolo delle scimmie, un orthopoxvirus, considerabile alla stregua di un parente stretto del virus del vaiolo umano. Stiamo facendo riferimento comunque, ad una malattia certamente rara, trattabile, che in genere si presenta con febbre, lesioni cutanee e linfonodi ingrossati, e che può causare, come molte altre infezioni, complicazioni come infiammazioni cerebrali e polmonari. Ma il tutto si può tranquillamente derubricare ad un evento clinico di scarsa gravità. Per cui...eviterei qualsiasi "apriti Cielo"!!!

Il 24 maggio scorso, Hugh Adler della Liverpool School of Tropical Medicine, ha pubblicato (Lancet 2022, DOI: 10.1016/S1473-3099(22)00228-6- https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(22)00228-6/fulltext ) uno studio retrospettivo in cui sono stati esaminati i trattamenti off-label con antivirali (Tecovirimat e Brincidofovir) di 7 pazienti affetti dal vaiolo delle scimmie nell’arco di tempo 2018 - 2021 per valutarne l’attività sia sui sintomi che sulla capacità di inibire la contagiosità e quindi fornire indicazioni su come questi farmaci potrebbero funzionare.
Bene, che cosa è emerso da questo ridottissimo campione? I tre pazienti trattati con 200 mg. di brincidofovir per via orale una volta alla settimana hanno dovuto interrompere il trattamento dopo un innalzamento elevato degli enzimi epatici che propendevano per un'infiammazione o una lesione del fegato, mentre il paziente a cui sono stati somministrati 200 mg di tecovirimat orale due volte al giorno per 2 settimane non è incorso in effetti avversi ed ha manifestato una durata dei sintomi più breve.

Benché Adler abbia intravisto segnali promettenti in tecovirimat, la dimensione del campione è molto ridotta, per cui, una simile tipologia di analisi e studio potrebbe e dovrebbe servire da trampolino di lancio per ricerche sempre più ampie, accurate ed esaustive.
Premesso che il vaiolo, essendo stato dichiarato ufficialmente eradicato nel 1980, non annovera antivirali attualmente esistenti che siano stati impiegati su esseri umani affetti da vaiolo, finora, solo un antivirale, il Tecovirimat, commercializzato con il marchio Tpoxx, è stato approvato in Europa per il trattamento di diversi disturbi, tra cui il vaiolo delle scimmie ed il classico vaiolo, mentre negli USA, la Food and Drug Administration, nel 2018, si è limitata a quest’ultima indicazione. Questa molecola si comporta come un inibitore della proteina p37, fondamentale per la formazione e la fuoriuscita delle particelle virali dalle cellule infettate. ll suo impiego, in sostanza, si configurerebbe solo in caso, c’è da augurarsi fantascientifico, di attacco terroristico.

Anche il profarmaco di Cicofovir (leggasi più sotto), assunto per os Brincidofovir, noto commercialmente come Tembexa è stato approvato per il trattamento del vaiolo dalla FDA, in quanto inibendo la DNA polimerasi virale, impedisce la replicazione del DNA . Ciò è in grado, nei test di laboratorio, di stoppare la crescita del virus che causa il vaiolo e di mostrarsi efficace nel trattamento di animali affetti da malattie simili al vaiolo.
Un discorso a parte merita invece il Cidofovir, ugualmente un inibitore della DNA polimerasi, che a differenza dei primi due, non è però stato approvato dalla FDA per il trattamento delle infezioni da virus variola, pur avendo dimostrato nei test di laboratorio, la capacità di fermare la crescita del virus che causa il vaiolo e di essere efficace nel trattamento di animali affetti da malattie simili al vaiolo. Utilizzato endovena mostra certamente un ampio spettro ed una attività che lo avvicina al long-acting, in virtù di quella che può essere considerata una lunga coda lipofilica.

Ovviamente, non risultando né fattibile né etica una sperimentazione dell’efficacia di questi farmaci sull’uomo, questi antivirali sono stati approvati seguendo la cosiddetta “Animal Efficacy Rule”, ossia basandosi su studi animali (i.e., primati non umani e conigli nella fattispecie). Successivamente, la sicurezza, la tollerabilità e gli effetti collaterali, sono state testate su persone sane o portatrici di altre infezioni virali.

lunedì 23 maggio 2022

STEREOTIPI CANINI CHALLENGEN: LA GENOMICA CANINA SFIDA E DEMOLISCE ALCUNI CLICHE'.


Essere etichettati secondo stereotipi, attribuzioni interpersonali e tipiche reazioni di matrice “popolare” non capita solo alle persone, ed infatti anche i nostri amici pelosi non sfuggono ad una tale “rappresaglia” figlia della banale erudizione da parte di titolati esponenti della mediocrazia più blasonata.

Piaccia o meno ma sarebbe quasi ora che qualcuno si svegliasse e si abituasse all’idea, che esprimo “like if I were a 2 year old” (ho un debole per Denzel Washington…che posso farci) che tutti i cani sono “buoni”indipendentemente dalla razza.  E tanto per portare le “pezze d’appoggio” alla mia affermazione cito un recente studio di genomica in cui si dimostra come la correlazione tra razza e comportamento si possa misurare in parsec. Non scopro certamente l’acqua calda se sottolineo che l’idea per cui a determinate razze canine corrispondano tratti comportamentali caratteristici, appartiene più ad una credenza frutto di tramandate illazioni “popolari”. E così i cliché vanno a ruba ed i golden retriever (rigorosamente tutti eh?!) sono assolutamente amichevoli mentre i levrieri risultano tipicamente più indipendenti e predisposti a farsi gli affari propri. Fortunatamente (o sfortunatamente… dipende sempre dai punti di vista) lo studio di genomica di cui sopra, mette in discussione questa idea, che oggi appare un tantino bislacca. (https://www.science.org/doi/10.1126/science.abk0639).


Kathleen Morrill ed Elinor K. Karlsson della Chan Medical School dell'Università del Massachusetts e i loro colleghi hanno intervistato 18.385 proprietari di cani - circa la metà dei quali possedevano cani di razza mentre l’altra metà cani meticci - al riguardo dei tratti comportamentali dei loro animali domestici a cui hanno aggiunto anche il sequenziamento del DNA di ben 2.155 esemplari (non proprio tutta fuffa). Il loro studio ha chiarito come la maggior parte dei tratti comportamentali facciano riferimento ad una “ereditabilità (h2) > 25%”, là dove “si definisce ereditabilità per un particolare carattere la componente di quel carattere dovuta ai geni, espressa come valore numerico da 0 (nessuna influenza genetica su quel carattere) a 1 (carattere dovuto interamente ai geni)”.


Per farla semplice, la razza è uno scarsissimo indicatore predittivo del comportamento del cane, influendo su di esso, al massimo, per un misero 9%. A completamento dello studio è anche emerso che avere notizie accurate sulla discendenza, può indirizzare verso un presumibile tipo di comportamento, ma limitatamente a tratti come la “disponibilità” intesa come la capacità di reagire ai cambi di direzione ed ai comandi in genere a differenza di quella che viene definita “soglia o capacità agonistica” per la quale la razza, non fornisce alcun tipo di informazione predittiva attendibile.


Questi pochi concetti sono stati chiariti molto bene dalla stessa Karlsson in un comunicato stampa in cui dichiara: “La personalità e il comportamento di un cane sono certamente frutto della funzione di molti geni ma anche e soprattutto dall’esperienza di vita vissuta dall’animale. ", (https://www.umassmed.edu/news/news-archives/2022/04/umass-chan-study-shows-canine-behavior-only-slightly-influenced-by-breed/). Sarebbe un grave errore non considerare che, se da un lato i tratti comportamentali dei nostri amici riassumono il risultato di migliaia di anni di adattamento, dall’altro, le “moderne” razze canine, strutturate sulla base di particolari caratteristiche fisiche ed estetiche, sono nate solamente meno di 160 anni fa.


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