lunedì 25 aprile 2022

FARMACI RADIOATTIVI MIRATI (RADIOFARMACI) ALIMENTANO SPERANZE PER LA CURA DEL CANCRO (First Part of Two)


 Il cancro rappresenta la seconda causa di morte nel mondo, e secondo l’OMS nel 2020 1 decesso su 6 era causato da patologie oncologiche. Attualmente non è ancora disponibile una cura risolutiva per cui tutti gli sforzi sono all’unisono indirizzati nello sfatare questo indesiderato dato di fatto. Ho scritto, qualche tempo fa, un post sull’argomento qui: https://ilgeneegoista.blogspot.com/2021/08/cancrocome-resisti-e-perche.html riportato anche sul gruppo privato di FB: https://www.facebook.com/groups/878179696471899/posts/878839213072614/

Ad attirare l’attenzione, ultimamente, è un particolare tipo di trattamento oncologico, basato sull’impiego di radio-farmaci anche definiti radio-coniugati. Questi farmaci sono “costruiti” attorno ad un isotopo radioattivo che può essere somministrato in sicurezza dopo essere stato unito ad una molecola “vettrice” in grado di targhetizzare il bersaglio. Un tipico target è rappresentato ad esempio, dalle proteine sovra-espresse (proteine presenti sia nelle cellule sane, sia in quelle tumorali, ma in questo caso in abbondanza) da parte di alcune cellule tumorali e la cui inibizione porta a morte queste ultime senza danneggiare quelle sane. Detta così suonerebbe anche abbastanza semplice, se non fosse che, purtroppo, per motivi sui quali per ora, e sottolineo “per ora” preferisco sorvolare, il link tra patologie oncologiche e media, negli anni, è andato via via deteriorandosi, sulla scia di comunicazioni distorte, superficiali, inesatte ed a volte anche un po’ sfacciate.

E così anche il concetto di target, appare sempre più come scontato, se non fosse che non basta una semplice dichiarazione per dire “…ecco, quello è un target!”. Certo, le scienze biomediche, indagando sulla caratterizzazione dei vari tumori, sui rispettivi fattori di crescita, possono arrivare ad ipotizzare un eventuale target. Ma dopo, quest’ultimo deve essere validato per dimostrare inequivocabilmente che senza quella certa proteina, il tumore cessa di accrescersi sino a “morire”. Il resto è solo noia.


Ma come si arriva a progettare un radio-farmaco o radio-coniugato? Premesso che il suo sviluppo non è esente da ostacoli dal momento che deve essere accuratamente programmato per colpire il tumore, che il tipo di radioisotopo deve essere scelto con cura e che occorre risolvere tutti i problemi correlati alla fornitura dei componenti radioattivi, se volessimo seguire lo schema tanto caro ai tutorial “fai da te” su YouTube, avremmo bisogno, nell’ordine, di un isotopo radioattivo, un agente chelante, un linker e una molecola bersaglio scelta in modo tale che si leghi in modo specifico a un antigene altamente espresso nelle cellule tumorali.


Per buttarla tra il serio ed il faceto, da tempo, esistono molti modi per contrastare il cancro, ma molti di questi possono anche causare non pochi problemi ai pazienti. A questo proposito, le parole di Chris Orvig, Professore di Chimica e Scienze Farmaceutiche presso l'Università della British Columbia che si occupa di chimica radio-farmaceutica, suonano piuttosto illuminanti: “La chemioterapia è un metodo piuttosto brutale per trattare i tumori e questo perché la chemioterapia non discrimina: uccide sia le cellule sane che quelle cancerose. In pratica si procede “avvelenando” il paziente nel suo complesso, consci del fatto che il cancro sia un po' più suscettibile. Ergo, quest’ultimo, subisce maggior danni”.

Anche le radiazioni rappresentano un trattamento antitumorale, capace di “uccidere” le cellule danneggiando il loro DNA. Un tipo comunemente impiegato è la radioterapia a fasci esterni con cui ci si pone l’obiettivo di convogliare, grazie ad un acceleratore lineare, raggi X ad alta energia su un'area specifica di un paziente. Insomma, un trattamento certamente più mirato rispetto alla chemioterapia, ma pur sempre in grado anch’esso di danneggiare le cellule sane.

E, negli ultimi anni, si è assistito allo studio ed allo sviluppo (nel 2019 la FDA ne ha approvati 3) degli ACDs anche noti come Antibody Drug Conjugates. (https://cen.acs.org/pharmaceuticals/drug-development/new-drugs-2019/98/i3).

Sono una classe particolare di farmaci biologici altamente mirati che combinano anticorpi monoclonali specifici per antigeni di superficie presenti su particolari cellule tumorali con agenti anticancro altamente potenti collegati tramite un linker chimico.

Sempre seguendo il principio tanto caro ai tutorial “fai da te” di YouTube, e per rendere più fruibile e leggero un argomento piuttosto tecnologico, gli “ingredienti” da utilizzare per un buon ACD dovrebbero essere: 1) Un mAb o anticorpo monoclonale altamente selettivo per un antigene associato al tumore e che al contrario, presenti un'espressione limitata o assente sulle cellule sane. 2) Un potente agente citotossico progettato, dopo essere stato rilasciato ed interiorizzato nella cellula tumorale, per portare a morte le cellule bersaglio. 3) Un linker stabilmente in circolazione, in grado di rilasciare l'agente citotossico nelle cellule bersaglio.

Purtroppo, sempre per i motivi ricordati qui: https://ilgeneegoista.blogspot.com/2021/08/cancrocome-resisti-e-perche.htm, come per molti altri trattamenti oncologici, le cellule tumorali possono acquisire resistenza anche nei confronti degli ACDs, rendendoli così  un po' meno efficaci.


Ma torniamo all’oggetto di questo primo post di due, ossia i radio-farmaci o radio-coniugati. L’approccio impiegato dalle aziende farmaceutiche è molto simile a quello impiegato per lo sviluppo degli ACDs, con la differenza che in luogo di un potente agente citotossico viene utilizzato un isotopo in grado di “uccidere” il cancro.

Un primo vantaggio di questa innovativa proposta terapeutica è data dal fatto che a differenza della radioterapia a fasci esterni, i radio-coniugati possono convogliare radiazioni a più tumori contemporaneamente. Un ulteriore vantaggio dei radio-farmaci è che il meccanismo d'azione è, tutto sommato, relativamente semplice. Su questo punto, quanto dichiarato da Alonso Ricardo chief scientific officer presso il Curie Therapeutics, è certamente rassicurante: "Stiamo parlando di qualcosa in grado di entrare nella cellula malata per distruggerne il DNA”.


A differenza degli ACDs, i radio-coniugati non devono porre un limite ad un determinato percorso biologico chiave o inibire alcuni meccanismi, per cui è abbastanza improbabile che le cellule dell’organismo trattato generino una soluzione biologica in grado di evitare il danno radioattivo. Le aziende che stanno studiando i radio-coniugati generalmente prendono in esame due tipi di isotopi: gli “emettitori” α (in grado di emettere particelle Alfa) e gli “emettitori” β (in grado di emettere particelle Beta). Come vedremo in un prossimo post, riscontreremo, per entrambi, sia vantaggi che svantaggi…as simple as this. ;-)


martedì 19 aprile 2022

HYBRID IMMUNITY.


Ho pensato di rispolverare, un articolo che scrissi tra Novembre e Dicembre dello scorso anno, quando questa definizione era solo lontanamente oggetto di discussione e comunque ben prima che “The Lancet” confermasse con questo recentissimo studio (https://www.thelancet.com/.../PIIS1473-3099(22.../fulltext), quanto la cosiddetta Immunità Ibrida, possa conferire un maggior grado di protezione nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2. L’intento è ovviamente cercare di comunicare come ciò possa accadere e perché.
Il grado di immunità nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2 è una questione molto importante nonché molto dibattuta. L’intero impianto del nostro sistema immunitario è un argomento molto complesso che spazia dall’immunità naturale che si ottiene in conseguenza dell'infezione e l'immunità indotta invece dal vaccino. A tutto ciò, ovviamente, si aggiunge l’interrogativo su quali siano le caratteristiche dell’immunità che si manifesta nei soggetti dotati di immunità naturale (lo ricordo per l’ennesima volta, perché hanno già sviluppato l’infezione) e poi successivamente vaccinati.
Ebbene sì, sto parlando di quella che per definizione viene descritta come “Immunità Ibrida” in virtù della quale le persone che hanno contratto una precedente infezione da SARS-CoV-2, sono in grado di sviluppare risposte immunitarie insolitamente “potenti” se successivamente vaccinate.
Sia chiaro una volta per tutte, in questo piccolo spazio che mi ritaglio, non debbo capitalizzare approvazioni o altre forme di consenso, semplicemente mi preme contribuire nel mio piccolo e con tutta l’umiltà di questo mondo, ad avere qualche argomento (non opinione, perché la differenza è sostanziale e sterile, se non suffragata da dati e numeri ripetuti e ripetibili), da comunicare e dando del mio meglio per farlo nel modo migliore possibile, ovviamente dal mio punto di vista. 🙂. Se poi, ci sono i presupposti per un sano, educato, dibattito, tanto meglio.
Ritornando a bomba, possiamo scrivere di Super Immunità al Covid? Ne esistono i presupposti? Nel fantasmagorico nonché variegato mondo delle ricerche su Google, soprattutto quelle non fact-check è capitato e capita tutt’ora di leggere di tutto, o quasi. In questo momento, sarebbe curioso, sapere in quanti si ricordino o abbiano mai avuto menzione di questi due nominativi: Theodora Hatziioannou e Paul Bieniasz. Parafrasando al plurale il Manzoni, “Theodora Hatziioannou e Paul Bieniasz! Chi sono costoro?”.
Facendo riferimento al seguente articolo apparso su Nature (https://www.nature.com/articles/d41586-021-02795-x) due virologi della Rockefeller University di New York che si sono proposti l’obiettivo di produrre una versione della componente chiave, nel meccanismo di infezione, della proteina del SARS-CoV-2, in grado di eludere la risposta di tutti gli anticorpi prodotti dal nostro organismo, in corso di infezione.
La loro intenzione era quella di identificare le parti della Spike - la proteina che il SARS-CoV-2 usa per infettare le cellule, che risultano essere bersagliate dai nostri anticorpi neutralizzanti per riuscire a “mappare” la componente fondamentale dell'attacco del nostro corpo al virus.
I risultati di tale ricerca sono riportati nello studio pubblicato a Settembre sempre su Nature (https://www.nature.com/articles/s41586-021-04005-0) in cui i due Autori riflettono sul fatto che mentre il mondo mantiene una strenua attenzione sulla possibile comparsa di nuove varianti del coronavirus con la capacità di eludere le nostre difese immunitarie, ci si possa anche trovare di fronte ad una sorta di "super-immunità”. L’aspettativa dei ricercatori sarebbe quella per cui, mappando le differenze tra la protezione immunitaria che deriva dall'infezione rispetto a quella conseguente la vaccinazione, si possa scoprire e tracciare un percorso decisamente sicuro verso questo livello di protezione più elevato.
Gran parte di quanto sino ad ora proposto trova una sua ragione in due studi e precisamente L. Stamatatos et al., Science 372, 1413 (2021) e C. J. Reynolds et al., Science 372, 1418 (2021) in cui si evidenziano anche le risposte immunitarie naturali e quelle indotte dal vaccino per contrastare le varianti.
Come ho già avuto modo di scrivere più volte, l’immunità naturale e l'immunità secondaria al vaccino, rappresentano due diversi meccanismi di protezione. L’intero impianto del nostro Sistema Immunitario Adattivo altresì definito come Immunità Specifica, ovvero quel tipo di Immunità che viene attivata secondariamente dal Sistema dell’Immunità Innata, riconosce 3 attori principali: i Linfociti B (da cui prendono origine gli anticorpi), le Cellule T CD4+ (Linfociti helper) e le Cellule T CD8+.
Allo stato attuale, quel che sappiamo è che il grado di memoria immunologica nei confronti del SARS-CoV-2 è stata osservata per più di 8 mesi per le cellule T CD4+, T CD8+, Linfociti B e per gli anticorpi , con un declino relativamente graduale che sembra in parte stabilizzarsi entro un anno.
La domanda centrale su cui occorre focalizzare l’attenzione è: cosa accade quando vengono vaccinati individui che hanno contratto precedentemente l’infezione? Le conclusioni che si possono raccogliere, sulla base di numerosi studi condotti in merito, sono che si possa generare, con un'impressionante sinergia, una sorta di “Hybrid Vigor Immunity" come prodotto della combinazione tra l’immunità naturale e l’immunità generata dal vaccino per cui ci si ritrova innanzi ad una risposta immunitaria più ampia del previsto.Quello che appare assodato è che nella definizione di Immunità Ibrida, sia i Linfociti B che quelli T, giocano un ruolo fondamentale.
Un quesito importante sull'immunità mediata da anticorpi nei confronti delle cosiddette “Varianti Preoccupanti” o VOC è se la riduzione degli anticorpi neutralizzanti è causata dalla capacità dell’antigene di combinarsi specificatamente con anticorpi e recettori per l’antigene intrinsecamente bassa da parte delle VOC (bassa antigienicità). Tradotto, è particolarmente difficile per i Linfociti B riconoscere le proteine spike mutate a causa delle varianti?
La risposta è no! Gli studi sull'infezione naturale con la variante sud africana o beta B.1.351 ed il ceppo progenitore del virus hanno dimostrato robuste risposte neutralizzanti gli anticorpi. Nel momento in cui si era provveduto a vaccinare individui precedentemente infettati NON a causa della variante B.1.351, si sono osservate quantità di anticorpi neutralizzanti tale variante, rispettivamente all’incirca 100 e 25 volte superiori rispetto sia a quelle prodotte dalla sola infezione, sia dalla sola vaccinazione, sebbene, appunto, la proteina Spike della B.1.351, non risultasse coinvolta. ( C. J. Reynolds et al., Science 372, 1418 (2021) e R. R. Goel et al., Sci. Immunol. 6, eabi6950 2021 ). Complessivamente si può ragionevolmente affermare, dunque, che, almeno nelle prime fasi delle osservazioni, una tale potenza e ampiezza di copertura da parte delle risposte anticorpali riscontrate in seguito alla vaccinazione di persone precedentemente infettate da SARS-CoV-2 non erano state ipotizzate o previste.
Ma allora perché osserviamo questa marcata attività neutralizzante? La ragione primaria va ricercata tra le cellule B di memoria che possiedono due funzioni fondamentali: produrre anticorpi identici dopo una re-infezione con lo stesso virus e codificare una specie d libreria delle mutazioni anticorpali, in modo che il nostro organismo possa disporre di una sorta di “scorta” delle varianti immunologiche. ( Z. Wang et al., bioRxiv 10.1101/2021.05.07.443175 - 2021 ).
Insomma, allo stato attuale delle conoscenze, non scriveremmo un’eresia se affermassimo che l'aumento degli anticorpi capaci di neutralizzare la variante, registrato dopo la vaccinazione di soggetti precedentemente infettate da SARS-CoV-2 è determinato dal richiamo delle cellule B di memoria qualitativamente molto elevate, generate precedentemente a seguito di una infezione primaria.
Per chi pensava che fosse tutto finito qui, mi spiace deludere, ma, per cercare almeno di farsi una ragione del concetto di immunità ibrida, occorre metabolizzare anche qualche altro elemento. 😉
Anche le cellule T sono necessarie per la generazione delle diverse cellule B di memoria e l’aiuto delle cellule T alle cellule B rappresenta un aspetto fondamentale dell'immunità adattativa e della generazione della memoria immunologica. In particolare, le Cellule T CD4 helper follicolari (TFH) rappresentano elementi imprescindibili.
Ricapitoliamo: le cellule T e le cellule B lavorano all’unisono per determinare la più ampia risposta anticorpale possibile contro le varianti ed in questo complesso meccanismo le cellule T assumono un ruolo chiave nella fase di richiamo mentre le cellule B di memoria non sono in grado di produrre attivamente anticorpi dal momento che si comportano come cellule quiescenti sino a quando, in seguito ad una re-infezione, iniziano a sintetizzare anticorpi.
Secondo gli studi L. Stamatatos et al., Science 372, 1413 (2021) e R. R. Goel et al., Sci. Immunol. 6, eabi6950 (2021), già riportati, le cellule B di memoria aumentano da 5 a 10 volte nel corso della cosiddetta “Immunità Ibrida” rispetto a ciò che accade con la sola infezione naturale o la sola vaccinazione.
Il nostro sistema immunitario tratta qualsiasi nuova tipologia di esposizione, sia essa un'infezione piuttosto che non la conseguenza di una vaccinazione, quasi conducendo un'analisi della “minaccia” in termini di costi-benefici tra l'entità della memoria immunologica da generare e quella da mantenere. Invero, a dispetto di qualsiasi analisi vale sempre una regola empirica di vecchia data secondo la quale le esposizioni ripetute sono riconosciute, come quelle dotate di maggiore attività.
Da qui la raccomandazione dei regimi vaccinali suddivisi in due o tre somministrazioni.( nota a margine per chi all’insofferenza propone un improduttivo spirito competitivo, ostentando la spavalda certezza che, fatte le due somministrazioni, non ne farà altre, quasi avesse fatto un piacere a qualcuno, se non a se stesso ).
A questo punto è chiaro che nell’ambito della Immunità Ibrida si manifesti un aumento della risposta immunitaria, ma non è così semplice da definire dal momento che l’entità della risposta conseguente alla vaccinazione effettuata dopo una infezione già avvenuta, risulta maggiore rispetto a q quella che si otterrebbe con la sola somministrazione della seconda dose di vaccino in individui sani.
Concludendo, l’Immunità Ibrida o Hybrid Immunity da SARS-CoV-2 sembra essere un fenomeno decisamente rilevante. Un esempio ulteriore per tutti? Il vaccino Shingrix per l'herpes zoster, quando viene somministrato a persone precedentemente infettate dal virus della varicella zoster, dimostra una straordinaria efficacia ( circa del 97% ) con un grado elevatissimo di risposta anticorpale, rispetto a ciò che si otterrebbe, in termini di risposta immunitaria, in conseguenza della infezione naturale. (https://www.science.org/doi/10.1126/science.abj2258).
Bene…It was a really big bear, you know? ;))
Ovviamente quanto esposto, rappresenta semplicemente un argomento su cui si pubblica e si dibatte, e mai, in alcun modo deve rappresentare una sorta di “gara” in cui vince chi si sente protetto maggiormente perché già precedentemente infettato e successivamente vaccinato ne tantomeno si vuol far intendere che, per prassi, “Two is better than one”. Non è una questione quantitativa, bensì di ragionevolezza nel comprendere, quanto i vaccini siano estremante utili ed indispensabili anche se si è già venuti a contatto con la malattia e, forieri, perché no, anche di qualche vantaggio supplementare, rispetto alla risposta generata dalla sola immunità naturale. Il che non guasta mai.
Fedele al concetto che tutto quanto ritenuto di impianto scientifico non è affatto sinonimo di certezza e che può essere invalidato in qualsiasi momento o meglio ancora migliorato da nuovi contributi, mi auguro vi sia spazio per esternare domande, perplessità e dubbi che parimenti alle certezze, riconoscono anch’essi l’errore, sia pure in forma di consapevole ed onesta ricerca di una alternativa plausibile.

venerdì 15 aprile 2022

PAUSA PASQUALE


Auguro a ciascuno di voi Buona Pasqua con la speranza che da qui in avanti ogni momento possa essere utile per cogliere un vero momento di Rinascita, al di là di ogni singolo convincimento religioso. E’ la Natura stessa, a ricordarcelo e lo fa ogni singolo anno ed a noi non resta altro che guardarci intorno per accorgercene.


https://youtu.be/FzofWXB5Q9o

giovedì 14 aprile 2022

IL MICRORGANISMO INGEGNERIZZATO CHE PROTEGGE IL MICROBIOMA INTESTINALE DAGLI ANTIBIOTICI.


Come è inevitabile che sia, gli antibiotici ad ampio spettro aggrediscono sì molti batteri, senza però risparmiare anche quelli presenti nel corredo del nostro microbioma intestinale con il risultato controproducente di causare uno squilibrio in grado di interferire sullo stato di benessere dell'intestino.


Alcuni ricercatori stanno  progettando microrganismi capaci di produrre un enzima in grado di degradare gli antibiotici β-lattamici nell’intestino dei topi senza influenzarne la concentrazione nel sangue. Questo approccio al problema, dovrebbe proteggere la normale flora batterica senza interferire con i livelli di antibiotico nel sangue e riducendo al minimo lo sviluppo della possibile resistenza agli antibiotici.


Nello specifico, James J. Collins, ingegnere biologico presso il Massachusetts Institute of Technology e Andrés Cubillos-Ruiz, ricercatore presso il Wyss Institute for Biologically Inspired Engineering  si sono concentrati sul probiotico Lactococcus lactis rendendolo idoneo per produrre enzimi chiamati β-lattamasi capaci di degradare e scomporre una classe chiave di antibiotici che include la penicillina e l’amoxicillina e classificati come antibiotici β-lattamici (https://www.nature.com/articles/s41551-022-00871-9). Se qualcuno si domandasse il perché della scelta di questo probiotico, la risposta è semplice, visto che si trova in molti alimenti e può essere tranquillamente consumato in grandi quantità.


Le β-lattamasi sono solitamente prodotte da batteri gram-negativi e restano intrappolate nello spazio compreso tra la membrana interna e quella  esterna (spazio periplasmatico) dei batteri. Ma L. lactis è un gram-positivo e quindi è sprovvisto di una membrana esterna capace di trattenere l’enzima e questo fa si che le β-lattamasi possano in tal modo intercettare e degradare gli antibiotici nell'intestino.


Ma come è stato possibile ingegnerizzare Il Lactococcus lactis per produrre una β-lattamasi? Semplicemente (si fa per dire) facendogli produrre una β-lattamasi sotto forma di due “frammenti” inattivi. Ogni frammento è stato poi collegato a domini proteici in modo da formare tra di loro dei legami covalenti per poi essere secreti all’esterno della cellula e qui i domini di formazione dei legami covalenti, hanno contribuito a riunire i frammenti enzimatici, in modo tale che si potessero riassemblare in una conformazione attiva capace di degradare gli antibiotici β-lattamici.


Secondo l’opinione di Nathan Crook, un ingegnere che da anni studia il microbioma intestinale presso la North Carolina State University, si tratterebbe di una soluzione intelligente ad un problema molto importante e frequente. In effetti, dividendo in due frammenti un gene responsabile della genesi della resistenza agli antibiotici in modo tale che al di fuori della cellula possano poi formare un’altra serie di enzimi attivi, si possono prendere, come si suol dire, due piccioni con una fava.

Da un lato si riduce  la concentrazione di antibiotici nell'intestino, dall’altro si ottiene questo obiettivo utilizzando un batterio ingegnerizzato che di per sé non è resistente all'antibiotico né è in grado di trasferire entrambi i frammenti genici generati a nessun altro tipo di microrganismo.


mercoledì 13 aprile 2022

SARS-COV-2: ANALISI DELLA TRASMISSIONE PER VIA AEREA DELLE INFEZIONI RESPIRATORIE VIRALI


Lo scopo di questo mio post è quello di analizzare e possibilmente chiarire ciò che all'inizio della pandemia, è sempre stato negato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ovvero che il SARS-CoV-2 non si trasmetteva attraverso l'aria. Un errore ora corretto che per troppo tempo ha contribuito a generare confusione alimentando dubbi ingiustificati. (https://www.scienzainrete.it/articolo/perché-loms-ha-impiegato-tanto-riconoscere-che-sars-cov-2-si-trasmette-aerea/chiara-sabelli).


Nel secolo scorso si pensava che i virus che si trasmettono per via aerea si diffondessero principalmente attraverso i DROPLETS, goccioline (che per chi non ha dimestichezza con il vocabolario esterofono, da ora definirò come tali) di “grandi” dimensioni prodotte dalla tosse e dagli starnuti di individui infetti che entrano in contatto con gli occhi, il naso o le mucose della bocca di ospiti potenziali o che, depositandosi su superfici, vengono poi in contatto con altre persone. Si presupponeva inoltre che queste goccioline cadessero a terra nel raggio di 1 o 2 m dalla persona infetta ( e questo rappresentava il presupposto da cui partire per raccomandare, da parte della maggior parte delle agenzie di sanità pubblica, di mantenere un determinato distanziamento di sicurezza ).

La trasmissione per via aerea si attua anche attraverso l’inalazione di aerosol infettivi (particelle che evaporano nell'aria) o di goccioline di dimensioni inferiori a 5 μm in grado di percorrere distanze di almeno 1 o 2 m a partire dalla fonte di infezione.

Gli aerosol sono particelle microscopiche liquide, solide o semisolide così piccole da rimanere sospese nell'aria. Gli aerosol respiratori vengono prodotti durante la fisiologica respirazione, il parlare, il cantare, il gridare, il tossire e lo starnutire sia da parte di individui sani che da parte di coloro che risultano infettivi. 


Le meno recenti conoscenze sulla trasmissione virale per via aerea ignoravano il fatto che gli aerosol potessero essere inalati anche a distanza ravvicinata da una persona infetta, dove il contagio è più probabile perché gli aerosol espirati sono più concentrati quando sono maggiormente vicino alla persona che li emette. Recentemente è stato proposto, che la distinzione in relazione alle dimensioni tra aerosol e goccioline dovrebbe essere aggiornata a 100 μm in luogo dei 5 μm, dal momento che si deve tener conto anche del comportamento aerodinamico. Nello specifico, 100 μm rappresentano le particelle più grandi che possono essere inalate rimanendo sospese nell'aria ferma per un tempo > 5 s e da un'altezza di 1,5 m, dopo aver percorso una distanza di 1 m dalla persona infetta. Nonostante le goccioline prodotte tossendo o starnutendo da un individuo infetto possano trasmettere l'infezione a brevi distanze (<0,5 m), il numero e la carica virale degli aerosol prodotti attraverso il parlare e altre attività espiratorie sono molto più elevati di quelli delle goccioline. Gli aerosol sono abbastanza piccoli da rimanere nell'aria, accumularsi in spazi scarsamente ventilati ed essere inalati sia a breve che a lunga distanza.


Prima del XX secolo, si pensava che le malattie infettive respiratorie si diffondessero tramite quelle che erano definite “particelle pestilenziali" rilasciate da parte di soggetti infetti. Questa interpretazione fu confutata all'inizio del 1900 da Charles Chapin, il quale sosteneva che fosse il contatto l’elemento principale per la trasmissione delle malattie respiratorie essendo preoccupato del fatto che menzionando il concetto di trasmissione per via aerea si sarebbe contribuito non solo a spaventare le persone ma anche a modificare le ormai acquisite abitudini igieniche. Chapin ha erroneamente correlato le infezioni a distanza ravvicinata con la sola trasmissione di goccioline, trascurando il fatto che anche e sopratutto la trasmissione di aerosol avviene a brevi distanze. Questa ipotesi non supportata da evidenze si diffuse negli studi epidemiologici e le strategie da allora attuate per mitigare la diffusione del virus si concentrarono prevalentemente sul limitare le cause e la diffusione di tali goccioline.


Ormai, esistono solide prove a sostegno della trasmissione aerea di molti virus respiratori, tra cui il virus del morbillo, il virus dell'influenza, il virus respiratorio sinciziale (RSV), il rinovirus umano (hRV), l’adenovirus, l’enterovirus, il SARS-CoV, il MERS-CoV e il SARS -CoV-2. Uno studio condotto in ambiente domestico stima che la trasmissione per via aerea con aerosol rappresenti circa la metà della trasmissione del virus dell'influenza A ( Aerosol transmission is an important mode of influenza A virus spread. Nat. Commun. 4, 1935 2013 ). Un ulteriore studio sulla trasmissione del rinovirus conclude che gli aerosol rappresentano probabilmente la modalità di trasmissione dominante ( Aerosol transmission of rhinovirus colds. J. Infect. Dis. 156, 442–448 1987 ). L'analisi delle emissioni respiratorie durante l'infezione da virus influenzale, virus parainfluenzale, RSV, metapneumovirus umano e hRV ha rivelato la presenza in maggiore quantità di genomi virali in aerosol <5 μm piuttosto che in aerosol più grandi mentre studi di laboratorio hanno scoperto che SARS-CoV-2 aerosolizzato ha un'emivita di circa 1-3 ore. Ad aprile e maggio 2021 l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ed il CDC hanno ufficialmente dichiarato l'inalazione di aerosol carichi di virus a breve e/o lunga distanza come la modalità principale per la diffusione del SARS-CoV-2 ( https://www.cdc.gov/coronavirus/2019-ncov/science/science-briefs/sars-cov-2-transmission.html ). 

Un recente modello matematico evidenzia come l’inalazione di aerosol carichi di patogeni sia determinante nel processo di trasmissione quando le persone si vengono a trovare entro 2 m dalla persona infetta mentre le goccioline lo sono solo quando gli individui si trovano entro 0,2 m quando parlano o 0,5 m quando tossiscono. 


Secondo le informazioni fornite dal CDC, linkato poco sopra, le modalità principali con cui le persone vengono infettate dal SARS-CoV-2 sono tre: (1) inalazione di goccioline respiratorie molto fini ed aerosol. In questo caso il rischio di trasmissione è maggiore entro 3-6 piedi da una fonte infettiva dove la concentrazione di queste goccioline ed aerosol è maggiore., (2) deposizione di goccioline ed aerosol mediante schizzi e spruzzi diretti sulle membrane mucose esposte nella bocca, nel naso o negli occhi.  Anche in questo caso il rischio di trasmissione è maggiore in prossimità di una fonte infettiva dove la concentrazione delle goccioline e degli aerosol è maggiore e (3 ) contatto delle mucose con le mani o le superfici che siano state esposte al contagio con il virus. 


A ciò si aggiunge l’evidenza che il rischio di infezione da SARS-Cov-2 varia in base alla quantità di virus a cui una persona è esposta per cui una volta che le goccioline e gli aerosol vengono espirati, tendono a spostarsi verso l'esterno rispetto la sorgente di contagio; dunque il rischio di infezione diminuisce con l'aumentare della distanza dalla sorgente e con l'aumentare del tempo entro cui è avvenuta l'espirazione. I fattori principali che determinano la carica virale a cui un soggetto può essere esposto sono:

  1. La diminuzione della concentrazione del virus nell'aria man mano che le goccioline respiratorie più grandi e pesanti contenenti il virus cadono a terra o su altre superfici a causa la forza di gravità.
  2. I fattori ambientali come temperatura, umidità e radiazioni ultraviolette (ad esempio la luce solare) influenzano la progressiva perdita della carica virale e della capacità di infettare nel tempo.

Una ulteriore informazione divulgata dalla nota del CDC è che la trasmissione di SARS-Cov-2 può avvenire attraverso l’inalazione del virus nell’aria quando ci si ritrova a più di sei piedi dalla fonte infettiva.

E’ un dato assodato che aumento della distanza dalla sorgente infettiva ed attività inalatoria siano direttamente proporzionali. Le infezioni per inalazione, a distanze da una fonte infettiva superiori a sei piedi, risultano meno probabili che a distanze inferiori e questo fenomeno è stato ripetutamente documentato. Secondo i rapporti pubblicati, i fattori che aumentano il rischio di infezione da SARS-CoV-2 in queste determinate circostanze includono:

  • Spazi chiusi con ventilazione o trattamento dell'aria inadeguati, all'interno dei quali la concentrazione sia di goccioline molto fini che di aerosol, possono facilmente accumularsi.
  • Aumento dell'espirazione quando il soggetto infetto è impegnata in uno sforzo fisico o alza la voce e grida.
  • Esposizione prolungata ( in genere più di 15 minuti ) a queste condizioni.

Per quanto concerne la nota relativa alla prevenzione della trasmissione del SARS-Cov-2, il CDC rimarca come non sia ancora stata stabilita precisamente la dose infettiva del virus sufficiente e necessaria per trasmettere l’infezione. Ciò che pare confermato è che la trasmissione da superfici contaminate, non contribuisce in modo sostanziale alla diffusione di nuove infezioni, e sebbene permangano ancora lacune sull’argomento, le conoscenze disponibili, ad oggi, continuano a dimostrare che le raccomandazioni esistenti per prevenire la trasmissione di SARS-CoV-2, ossia il distanziamento fisico, l’utilizzo di mascherine ed una adeguata ventilazione negli spazi interni, rimangono le precauzioni più efficaci.


Esaurito il documento proposto dal CDC, continuo nell’analisi tracciata sino ad ora. All’inizio della pandemia, basandosi sul fatto che l’R° fosse “relativamente” basso, se comparato con quello del morbillo, si presumeva che le goccioline e i fomiti fossero le principali vie di trasmissione. Ricordo che l’R°, noto come “numero di riproduzione di base”, rappresenta il numero medio di infezioni secondarie trasmesse da ciascun individuo infetto in una popolazione completamente suscettibile cioè mai venuta a contatto con il nuovo patogeno. Tale presunzione trovava radici nella convinzione che tutte le patologie trasmissibili per via aerea, dovevano essere forzatamente altamente contagiose.

Tuttavia, ora sappiamo che non esiste una evidenza scientifica che supporti una tale convinzione perché le malattie trasmesse per via aerea sono caratterizzate da un range di valori di R°, che non può essere “riassunto” da un singolo valore medio, dal momento che dipende da numerosi fattori. Un esempio può chiarire meglio il concetto, per cui la tubercolosi, che ha un R° che oscilla tra 0,26 e 4,3, pur essendo un’infezione batterica a trasmissione aerea, risulta meno trasmissibile della Covid-19 che ha un range di R° compreso tra 1,4 e 8,9.

I fattori che influenzano la trasmissione per via aerea includono la carica virale delle particelle respiratorie di dimensioni diverse, la stabilità del virus all’interno degli aerosol e la relazione dose-risposta per ciascun tipo di virus. Ovviamente la trasmissione aerea di SARS-CoV-2 dipende anche dalle caratteristiche degli ambienti interni, soprattutto quando scarsamente ventilati e ciò vale esclusivamente per gli aerosol e l’unico fattore che accomuna tutte le persone quando si ritrovano in ambienti interni, affollati, scarsamente ventilati, per un periodo superiore all’ora ed in mancanza di mascherine è l’aria condivisa ed inalata. 

Affinché si verifichi la trasmissione per via aerea, gli aerosol devono essere generati, trasportati attraverso l'aria, inalati da un ospite suscettibile e depositati nel tratto respiratorio ed il virus deve mantenere la sua capacità infettante durante tutti e tre questi momenti. Analizziamo più nel dettaglio.


Come si generano aerosol carichi di virus.

La normale espirazione genera aerosol in diversi punti del tratto respiratorio e con meccanismi distinti. Gli aerosol prodotti da attività come respirare, parlare e tossire hanno diverse dimensioni e velocità di flusso nell’aria che determinano la carica virale che ciascuna particella di aerosol può trasportare, il tempo di permanenza nell'aria, la distanza percorsa, ed infine i siti del tratto respiratorio in cui si depositano. Gli aerosol rilasciati da un individuo infetto possono contenere virus nonché elettroliti, proteine, tensioattivi e altri componenti.


Siti in cui si formano gli aerosol.

Gli aerosol respiratori possono essere classificati in aerosol alveolari, bronchiolari, bronchiali, laringei e orali, a seconda ovviamente dei siti in cui vengono prodotti. Gli aerosol bronchiolari si formano durante la normale respirazione. Durante l'espirazione, il film liquido che riveste le superfici dei bronchioli si rompe per produrre piccoli aerosol. Gli aerosol laringei sono generati dalle vibrazioni delle corde vocali durante la vocalizzazione. Al contrario, le goccioline (>100 μm) sono prodotte principalmente dalla saliva nella cavità orale.


Dimensioni e distribuzione degli aerosol.

La dimensione degli aerosol prodotti è una caratteristica importante perché influisce sulle peculiarità aerodinamiche, sui meccanismi di deposito e sui possibili siti dì infezione. È stato dimostrato che la respirazione normale rilascia fino a 7200 particelle di aerosol per litro di aria espirata. Il numero di aerosol carichi di virus emessi dalle persone durante la respirazione varia ampiamente tra gli individui e dipende dallo stadio della malattia, dall'età, dall'indice di massa corporea e dalle condizioni di salute preesistenti. I bambini generalmente producono meno aerosol carichi di virus rispetto agli adulti perché i loro polmoni sono ancora in via di sviluppo e hanno meno bronchioli e alveoli in cui possono formarsi gli aerosol. Uno studio ha mostrato che 1 minuto di conversazione può produrre almeno 1000 aerosol. Sebbene la tosse possa produrre più aerosol in un breve lasso di tempo, è molto meno frequente del normale moto respiratorio e delle comuni attività quali il parlare, il respirare ecc , specialmente per le persone infette che non mostrano sintomi clinici, e che per questi motivi rilasceranno un numero maggiore di aerosol.


Contenuto virale degli aerosol. 

La carica virale degli aerosol è un fattore determinante per comprendere quanto questa possa contribuire alla trasmissione per via aerea. Tuttavia, il campionamento e il rilevamento dei virus nell'aria sono difficili a causa delle loro basse concentrazioni nell'aria e della facilità con cui possono essere inattivati durante la procedura di campionamento condotta attraverso test di reazione a catena della polimerasi (PCR) o con la metodica di real-time RT-PCR (Reverse Transcription-Polymerase Chain Reaction). Sia chiaro che, la sola presenza di materiale genetico, non è sufficiente per determinare che il virus sia infettivo. Quanto i virus possano risultare attivi e potenzialmente infettivi durante la fase di campionamento della carica virale, dipende dall'integrità del genoma, delle nucleoproteine, del capside e dei capsomeri. Questo studio ( Viable SARS-CoV-2 in the air of a hospital room with COVID-19 patients. Int. J. Infect. Dis. 100, 476–482 / 2020 ) rileva come la concentrazione di SARS-CoV-2 nell'aria di una stanza d'ospedale con due pazienti COVID-19 fosse compresa tra 6 e 74 TCID50 per litro (TCID50 = unità di misura che fornisce la quantità di virus necessaria per distruggere o causare qualsiasi altro tipo di effetto citopatico nel 50% delle cellule o colture infettate ).

Sebbene i virus dotati di carica virale abbondino in piccoli aerosol, resta da chiarire quale sia la relazione dose-risposta che determina la probabilità di infezione dopo esposizione a un certo numero di virioni. In un ospite suscettibile, la dose infettiva minima varia in base al tipo di virus e al sito nel tratto respiratorio in cui si deposita e ciò fa sì che l'inalazione di aerosol più piccoli che si depositano più in profondità nei polmoni possano richiedere meno virus per essere in grado di infettare.


Caratteristiche e comportamenti degli aerosol con carica virale nell’ambiente.

Le caratteristiche fisiche degli aerosol influenzano il modo con cui vengono trasportati nell'aria. La velocità iniziale con cui gli aerosol sono espirati dipende da come vengono generati e successivamente rilasciati all'interno delle vie respiratorie; ad esempio, la tosse produce goccioline e aerosol rilasciati ad una velocità più elevate rispetto a quanto avviene quando si parla normalmente. Il trasporto di aerosol è controllato da un mix di fattori che comprendono le caratteristiche che influenzano il flusso dell’aria ( moto browniano e le forze gravitazionali, elettroforetiche e termoforetiche ), alcune proprietà ambientali come temperatura, umidità e radiazioni ultraviolette (UV) e le stesse caratteristiche fisiche degli aerosol.


Le dimensioni degli aerosol espirati che rimangono nell'aria cambiano nel tempo a causa dell'evaporazione e/o del loro deposito. Dal momento che gli aerosol respiratori contengono componenti non volatili tra cui proteine, elettroliti e altre specie biologiche, la velocità di evaporazione è più lenta di quella dell'acqua. Durante l'evaporazione, gli aerosol sono soggetti a cambiamenti di fase, morfologia, viscosità e pH ed i cambiamenti nelle caratteristiche fisiche degli aerosol influenzano il trasporto e il destino di tutti i virus contenuti al loro interno nonché la relativa carica virale. Una ulteriore importante considerazione è che il tempo di permanenza degli aerosol carichi di virus nell'aria è cruciale nel determinare il loro raggio di diffusione. In assenza di altre forze, il tempo di permanenza di un aerosol di una determinata dimensione è correlato alla sua velocità di sedimentazione finale, risultante dall’equilibrio tra la forza di resistenza viscosa e la forza gravitazionale, così come descritto dalla legge di Stokes per le piccole particelle soggetto a flusso laminare.

Quando l’aria è in uno stato di quiete (aria ferma) un aerosol di 5 μm impiega 33 minuti per depositarsi al suolo da un'altezza di 1,5 m, mentre un aerosol di 1 μm può rimanere sospeso nell'aria per un tempo superiore alle 12 ore. Ma noi non viviamo all’interno di un modello ideale e precostituito, bensì reale, per cui dobbiamo prendere in considerazione la velocità del flusso dell’aria circostante. 


La distanza che gli aerosol con carica virale sono in grado di percorre dipende dalle dimensioni dell'aerosol, dalla velocità iniziale del flusso che li trasporta e da altre condizioni ambientali, come la velocità del vento, se ci si trova nell’ambiente esterno, o le correnti d'aria interne prodotte dalla ventilazione naturale, dal riscaldamento o dall’aerazione con aria condizionata. La concentrazione degli aerosol espirati risulta essere massima vicino alla fonte (cioè l'individuo infetto) e diminuisce man mano che ci si allontana. Mentre quelle che abbiamo definito come goccioline di grandi dimensioni tendono a raggiungere rapidamente le distanze orizzontali massime percorribili ed a cadere a terra o sulle superfici entro pochi metri, gli aerosol possono rimanere sospesi per molti secondi  se non addirittura per ore, percorrendo lunghe distanze ed accumulandosi nell'aria all’interno di spazi scarsamente ventilati.


Quali sono i fattori ambientali che influenzano gli aerosol.

Temperatura: Evidenze epidemiologiche e studi sugli animali suggeriscono che la trasmissione di virus respiratori in grado di infettare le vie aeree superiori è favorita dalle basse temperature.

Umidità relativa; L'umidità relativa (UR) è in grado di influenzare il trasporto dei virus e della relativa carica virale. La relazione tra UR e capacità infettiva, sia nelle goccioline che negli aerosol, dipende dalle proprietà fisico-chimiche intrinseche del virus e dalle caratteristiche dall'ambiente circostante.

Radiazioni UV:  L'irradiazione con luce UV è stata per lungo tempo considerata come  un approccio efficace per inattivare i virus a trasmissione aerea, inclusi il virus dell'influenza, il SARS-CoV e altri coronavirus umani. Il meccanismo con cui esplicherebbero quest’azione si ritrova nella capacità di danneggiare il materiale genetico del virus, sino a condurlo all’inattivazione.

Anche il flusso dell’aria, la ventilazione e la relativa filtrazione rientrano nell’elenco di questi fattori.


Come si depositano gli aerosol carichi di virus:

Una volta inalati, gli aerosol dotati di carica virale sono in grado di depositarsi nel tratto respiratorio di un ospite potenziale. Ancora una volta la dimensione degli aerosol è fondamentale per determinare il luogo in cui il virus si depositerà, non tralasciando che anche numerosi fattori (quali l’anatomia delle vie aeree) piuttosto che non fisiologici o aerodinamici, influenzino anche il modello con cui questi si depositano.


Il modo con cui gli aerosol si depositano nei polmoni di soggetti ammalati o assolutamente sani, differisce in base ai mutamenti che avvengono a carico della struttura delle vie aeree. Ad esempio, il flusso dell’aria ed i comportamenti degli aerosol inalati possono risultare alterati nei soggetti asmatici, a causa dei cambiamenti che avvengono a carico dell'epitelio del tratto respiratorio, così come nei soggetti con BPCO in seguito al restringimento delle vie aeree causato appunto dalla broncopneumopatia cronica ostruttiva. Ovviamente la quantità di aerosol depositati è maggiore nei pazienti con BPCO rispetto agli individui sani, parimenti come il deposito a livello bronchiale è maggiore nei pazienti con asma e bronchite cronica. 

Gli studi suggeriscono anche che la carica virale del SARS-CoV-2 è più elevata e persiste più a lungo nel tratto inferiore dall’apparato respiratorio rispetto a quello superiore, dal momento che gli aerosol prodotti, essendo di dimensioni inferiori ai 5 μm, riescono a penetrare più facilmente in profondità. 


Conclusione: 

Innanzitutto non si può differenziare in modo netto tra trasmissione aerea in un ambiente interno o esterno portando in causa solo i Droplets poiché questi sono influenzati dalle forze gravitazionali in modo identico sia all’interno che all’esterno.


Sebbene alcuni studi suggeriscano che la trasmissione per via aerea non sia una via efficace, in particolare per gli individui asintomatici o paucisintomatici ( Aerosol persistence in relation to possible transmission of SARS-CoV-2. Phys. Fluids 32, 107108 anno 2020 ) dal momento che mostrano  basse cariche virali nella loro saliva, la carica virale negli individui presintomatici è paragonabile a quella dei pazienti sintomatici ( SARS-CoV-2 viral load in upper respiratory specimens of infected patients. N. Engl. J. Med. 382, 1177–1179 (2020) e SARS-CoV-2 detection, viral load and infectivity over the course of an infection. J. Infect. 81, 357–371 anno 2020). È importante soprattutto potenziare le precauzioni in grado di proteggere dall'esposizione preventiva di aerosol con carica virale prodotti quando gli individui, senza essere coscienti di essere infettivi dal momento che non mostrano alcun sintomo,  parlano, cantano o semplicemente svolgono le normali attività . Poiché questi soggetti non sanno di essere infetti, generalmente continuano a far vita sociale, contribuendo in tal modo ad una diffusione inconsapevole dell’infezione.


L’utilizzo di mascherine è un modo efficace ed economico per bloccare gli aerosol carichi di virus (Reducing transmission of SARS-CoV-2. Science 368, 1422–1424 anno 2020). Le simulazioni nei modelli studiati dimostrano che le mascherine prevengono efficacemente la trasmissione asintomatica e riducono il numero totale di individui infetti e la mortalità a causa della COVID-19 (To mask or not to mask: Modeling the potential for face mask use by the general public to curtail the COVID-19 pandemic. Infect. Dis. Model. 5, 293–308 anno 2020), e risulta fondamentale ottimizzare la distribuzione di tali mascherine.


martedì 12 aprile 2022

ADUCANUMAB: DELLA SERIE METTERCI UNA PEZZA E FARE UNA TOPPA PEGGIORE DEL BUCO.


Come è ovvio che sia, il sonoro “ceffone” sferrato dal CSM, il Centers for Medicare & Medicaid Services, al travagliato farmaco Aduhelm di Biogen ha lasciato un gran bel segno, per cui la domanda che sorge spontanea è:… e adesso? 


Ma andiamo con ordine. All’incirca un anno fa scrivevo sul Blog questo post in cui riportavo come l’FDA avesse approvato l’anticorpo monoclonale aducanumab, grazie ad una “approvazione accelerata”, per il trattamento del morbo di Alzheimer [https://ilgeneegoista.blogspot.com/2021/06/alzheimer-fda-approva-aducanumab-ci.html] nonostante il parere contrario del panel dei consulenti indipendenti della stessa FDA (fatto che definire inusuale è un eufemismo, dal momento che non è mai accaduto in passato). Da allora di acqua e fango, soprattutto fango, ne sono passati sotto i ponti. https://ilgeneegoista.blogspot.com/2021/06/alzheimer-fda-approva-aducanumab-ci.html


Vediamo il perché. Per farla semplice  l’FDA ha elaborato pari pari questo semplice ragionamento con l’azienda produttrice: io ti faccio passare il farmaco grazie ad una “approvazione accelerata” sulla base della “soddisfazione” di un endpoint SECONDARIO quale la riduzione dose e tempo-dipendente della placca amiloide-beta, mentre tu (leggi Biogen) ti impegni a proseguire i trials per dimostrarne l'utilità clinica (endpoint primario). Ma il problema stava proprio qui purtroppo, dal momento che l’elenco dei farmaci in sperimentazione che riducono la placca amiloide di certo non è scarso e sono gli stesi farmaci che il beneficio clinico non lo vedono nemmeno con l’aiuto di un binocolo per cui la frase che in quel periodo andavava per la maggiore su EndpointNews era:…”Hoi!!!!…perché quello sì mentre il mio, che in pratica ha il medesimo effetto, no?”

Ed intanto, del beneficio clinico risultante dai trials richiesti a Biogen, ancora manco l’ombra.


Bhe, parrebbe proprio che tutta questa faccenda abbia più ombre che luci e qui potrete approfondire tutta la narrazione (https://www.msn.com/en-us/news/us/inside-e2-80-98project-onyx-e2-80-99-how-biogen-used-an-fda-back-channel-to-win-approval-of-its-polarizing-alzheimer-e2-80-99s-drug/ar-AALzzpL) e di certo la figura di Billy Dunn, direttore dell'ufficio delle neuroscienze dell'Fda, non ne esce proprio immacolata. Mentre resta inciso sulla pietra che il panel dei consulenti indipendenti di FDA ha concordato clamorosamente, fin dall’inizio, che non c'erano prove sufficienti a suffragare una chiara efficacia clinica.


A mettere la ciliegina sulla torta ci ha pensato comunque il Centers for Medicare & Medicaid Services, che, confermando la loro posizione restrittiva, hanno limitato la copertura dell’impiego del monoclonale aducanumab, commercialmente Aduhelm di Biogen, per il trattamento del morbo di Alzheimer, ai soli pazienti arruolati in studi clinici randomizzati.

A questo punto, è tempo che lo sviluppatore del farmaco, Biogen appunto, ripensi alle decisioni da adottare, incluso, come suggerisce un analista, la rinuncia alla commercializzazione. Suonano infatti molto “dure” le parole pronunciate in una nota lo scorso giovedì dall’analista di Piper Sandler, Christopher Raymond: “ In molti speravano in un risvolto migliore, ma ora, l’ultimo barlume di speranza per Aduhelm è svanito”.


Lo stesso articolo potrà esserlo letto qui: https://www.facebook.com/groups/878179696471899/posts/885231225766746/


sabato 9 aprile 2022

LA GENERAZIONE 2.0 DEGLI ANTIVIRALI CONTRO LA COVID-19 / (Part Three).


Contrariamente a quello che qualcuno pensa, la lotta alla Covid non rappresenta un gioco a somma zero, e con i vaccini e gli anticorpi monoclonali disponibili, la nuova generazione di antivirali, se migliorati dal punto di vista del profilo clinico, farmacocinetico e farmacodinamico diventeranno sempre di più un presidio fondamentale su cui contare. E’ ovvio pensare che nel caso in cui il Sars-CoV-2 diventasse sempre più endemico, il paradigma del trattamento, nei prossimi massimo due anni, si dovrebbe traslare dal trattamento negli ospedali dei casi gravi al trattamento in ambito ambulatoriale dei casi lievi/moderati. E sino a qui, nulla che abbia a che vedere con Super Eroi, Elfi o altre storie fantastiche.

Tuttavia, forse in virtù di una così tanta penuria di armi e personaggi dai super-galattici poteri, oltre oceano, gli Stati Uniti si stanno affannosamente organizzando per ideare programmi  in grado di rendere più accessibili gli attuali antivirali disponibili. Nell'ambito di un'iniziativa lanciata di recente e chiamata “Test to Treat”, letteralmente “Test e Cura”( https://www.economymagazine.it/biden-antivirali-gratis-agli-americani-positivi-al-test-in-farmacia/) i pazienti che presentano sintomi da infezione Covid-19 e classificabili ad alto rischio per lo sviluppo di malattia grave possono entrare belli belli in alcune selezionate farmacie per essere “valutati” e, nel caso, possono uscirsene con un bel sacchetto contenente un ciclo completo gratuito di antivirali. Che si tratti di una illuminazione, sinceramente non lo so e che si tratti di una buona idea, ancor meno. Come chiarito nei due post precedenti, il trattamento con Paxlovid prevede 30 pastiglie in 5 giorni, 10 di Ritonavir e 20 di Nirmatrelvir, ossia non certamente il non plus ultra della compliance, dal momento che parliamo dell’assunzione giornaliera di 6 capsule. Inoltre deve essere inderogabilmente somministrato entro i primi 5 giorni dall'insorgenza dei sintomi.

Resta dunque da vedere, come riportato in un articolo di Repubblica (https://www.repubblica.it/salute/2022/03/07/news/covid_test_strategia_usa_giusta-340298110/) quanti e quali siano i punti deboli di una simile strategia. “Un comune cittadino americano, sarà in grado di riconoscere i primi sintomi e a presentarsi in farmacia in tempo per la somministrazione? Come fa un cittadino a sapere se svilupperà una malattia grave?”. Ed a queste sacrosante domande si sommano ulteriori “other weaknesses” quali la discriminazione dei pazienti che beneficeranno del farmaco, il difficile monitoraggio degli effetti collaterali e dell'iinterazione con altri farmaci (già riferiti per Paxlovid), nonché la correttezza del trattamento.


Ma come si dice…”se Atene piange, Sparta non ride”…anzi!!! E per Sparta, leggasi pure il nostro Bel Paese. Che dire, pare di assistere ad un’opera del Teatro dell’Assurdo con totale disarticolazione di qualsiasi forma di pensiero logico-consequenziale. Mi verrebbe da parafrasare stravolgendone però la narrazione, Beckett quando scrisse Aspettando Godot.

Vladimiro ed Estragone, potrebbero benissimo chiamarsi Alberto e Giovanni ( magari due neo positivi al covid appena informati di esserlo), e Paxlovid non stonerebbe in luogo di Godot. E mentre i giorni passano (5 per l’esattezza) i due parleranno tra di loro, interagiranno sia pure con toni assurdi, aspettando l’arrivo di Paxlovid, che, sappiamo per bocca del suo “giovane messaggero”, ( massì, Aifa potrebbe essere un nome di fantasia accettabile) non arriverà mai, o peggio, causa una irrefrenabile tendenza delle persone a complicare le cose semplici, sprofondando nel grottesco, ARRIVERA’, si chiamerà per l’appunto Paxlovid e sarà disponibile ma talmente in RITARDO, causa una assurda normativa, da risultare inutile tanto quanto un NON PERVENUTO, e senza che nessuno faccia una qualsiasi azione eclatante per smuovere la situazione.


Eh già! Perché piaccia o meno, siamo alle solite. Il Virologo F. Broccolo dell’Università di Milano Bicocca, sintetizza, si fa per dire, l’intero iter per accaparrarsi questa terapia antivirale così: “Ci vogliono circa due giorni prima che il paziente abbia il referto del tampone, dopodiché deve rivolgersi al medico di base (o anche ad una Usca) il quale a sua volta dovrà mettersi in contatto con il reparto di Malattie infettive dell'ospedale, dove il farmaco potra’ essere prescritto e somministrato da”alle sole Farmacie Ospedaliere. Insomma, si tratta di una normativa burocratica, a cui purtroppo siamo ormai avvezzi, che rischia di rendere inutilizzabili farmaci vitali, e per altro già anche acquistati causa ristrettezza dei tempi. Già me la vedo l’indignazione (sacrosanta) di chi scriverà a proposito di soldi spesi nell'acquisto di farmaci “inutili” perché non utilizzabili: “shame in you”, a catinelle insomma.


Del resto, già ad inizio Aprile, il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici Filippo Anelli, si era così espresso: “Un iter così complesso, infatti, rischia di far slittare i tempi pericolosamente, rallentando l’accesso ai farmaci. Chiediamo che i percorsi siano semplificati in modo tale da poter iniziare quanto prima possibile il trattamento ed ora aspettiamo lo convocazione ad un tavolo da parte di AIFA”. ( https://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=102184.). Lascio intuire come sia finita la trattativa. Gia! La vicenda dei Mab, sia pure con i dovuti distinguo, pare proprio non abbia insegnato nulla (https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/10/07/monoclonali-indagine-della-corte-dei-conti-aifa-rifiuto-i-farmaci-gratis-poi-li-compro-dopo-un-anno-il-fascicolo-sullo-scoop-del-fatto/6346288/.).


Pare proprio, che ancora una volta, per evitare un eccesso di prescrizione, si sia optato per il male minore ma assolutamente fallimentare, “boicottando” la prescrivibilità, nonostante la politica abbia stanziato i fondi ed acquistato il farmaco. In fondo, cosa volete che sia se, per quanto riguarda Paxlovid “l’Italia ha opzionato 600mila trattamenti per un anno ma in un mese ne sono stati prescritti solo per 2.072 pazienti?!”. E le cose di certo non vanno meglio per molnupiravir di Merck & Co. Chapeau! Vorrà dire che questo tipo di “sistema”, da qualche parte, garba a molti. 

(https://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=103387).



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