domenica 28 aprile 2024

CI SI PUO’ FIDARE DELLE ETICHETTE CHE RIPORTANO LE CALORIE? UNA DOMANDA PER AFFRONTARE IN PARTE IL METABOLISMO CALORICO DEL NOSTRO ORGANISMO.


Partiamo dal concetto che una caloria è una unità di energia che nel XIX secolo Nicolas Clément definì come l’energia necessaria per aumentare di un grado Celsius la temperatura di un grammo di acqua. Sappiamo che il calore è un tipo di energia e diversi tipologie di energia possono essere convertite le une nelle altre. Ad esempio, con un esperimento, James Joule riuscì ad identificare una unità di misura del lavoro e dell’energia denominata appunto Joule ( J ) ed il fattore di conversione tra caloria e Joule è pari a circa 4,8 per cui 1 caloria equivale a 4,8 J. 

Quando però prendiamo in esame gli alimenti, è più conveniente fare riferimento a migliaia di calorie alla volta per cui ecco introdotti i parametri chilocalorie e Kilojoule ( 1Kilocal = 1.000 calorie ). Ma queste sono solo elementari nozioni di fisica.  

Un po “barbaramente” possiamo prendere e bruciare del cibo e poi misurare quanto sia in grado di riscaldare l’acqua ( il principio di funzionamento dei calorimetri ) e questo ci fornirebbe un valore calorico per il cibo.

Ma il corpo umano non è un calorimetro e non brucia interamente il cibo, dal momento che non usa il 100% dell’energia disponibile perchè parte di essa si esaurisce con l’attività escretoria dei prodotti finali della digestione. Per questo motivo per misurare quanto rimane nel nostro organismo, dobbiamo misura l’energia di ciò che entra e di ciò che esce per poi sottrarre l’una dall’altra e Wilbur Atwater fece esattamente questo ottenendo come risultato un valore calorico per grammo relativo a carboidrati ( 4 Kilocal/g ), proteine ( 4 Kilocal/g ), grassi ( 9 Kilocal/g ), alcol ( 7 Kilocal/g ). Giusto 4 numeri!!!

Ovviamente quello che conta non è solo l’energia totale ma anche la velocità con cui questa viene rilasciata. Lo studio di Atwater sovrastima l’energia che il corpo può ricavare dal cibo perchè tiene conto anche del contenuto energetico delle fibre e di altri elementi non digeribili. 

Come in tutte le cose, “aggiustando” i numeri è possibile ottenere il sistema di Atwater modificato ed è proprio ciò su cui si basano ancora oggi le etichette delle calorie sulle confezioni degli alimenti: chi produce esegue una analisi chimica per determinare le quantità di grassi, proteine e carboidrati per poi convertirle in calorie. Se il cibo contiene fibre non digeribili allora sottraggono qualcosa e quel numero finisce sull’etichetta. Questo sistema genera non pochi problemi. Uno è di natura commerciale dal momento che sebbene le etichette alimentari siano obbligatorie nella maggior parte dei paesi a far data dagli anni ’90, le linee guida offrono alle aziende un ampio margine di manovra. Tanto per fare un esempio, l’FDA afferma che i valori calorici possono avere un grado di imprecisioni pari al 20% (https://millersbiofarm.com/blog/nutrition-labels-are-inaccurate-this-is-why-and-here-are-our-estimates#:~:text=The%20FDA%20allows%20up%20to,on%20the%20type%20of%20nutrients). 

Purtroppo, le aziende alimentari hanno un forte incentivo a sottovalutare il contenuto calorico quindi se possono contare su un margine di manovra legalizzato il sospetto che i loro numeri siano sistematicamente sottostimati sarebbe più che giustificato. Nel 2011 alcuni ricercatori americani hanno controllato ed hanno scoperto che i pasti preconfezionati in media hanno in media circa l’8% in più di calorie rispetto a quelle elencate sull’etichetta (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/pmc2838242/). Similmente uno studio analogo nel 2013 ha rilevato che il contenuto calorico medio degli snack era superiore di oltre il 4% rispetto a quanto indicato sull’etichetta (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3605747/). 

Continuando, le etichette con le calorie presentano molti altri problemi. Ad esempio non tengono conto di quanta energia si deve spendere per digerire il cibo. Per chi non lo sapesse anche la semplice masticazione richiede energia e più il cibo è compatto più è difficile da digerire. 

Questo dato è stato ampiamente studiato con le noci. In una serie di studi dal 2011 al 2015 , un gruppo di ricercatori americani ha scoperto che le calorie che il corpo può ricavare dalle mandorle sono il 32% in meno rispetto a quelle riportate sulle etichette ( https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3396444/#:~:text=When%20applied%20to%20mixed%20diets,by%2026%25%20(26) ), per le noci è il 21% in meno e per i pistacchi il 5%. Hanno anche dato molta importanza a come il cibo viene lavorato. Se le noci vengono arrostite la quantità di calorie che si può ricavare aumenta nuovamente. Un altro fattore importante relativo a quanta energia si può ricavare dal cibo è se è stato cotto. Effettivamente il cibo crudo è generalmente più difficile da digerire perchè la cottura scompone le molecole lunghe ed è stato uno studio condotto sui topi nel 2011 a dimostrare e misurare questi risultati dove i ricercatori nutrirono i topi con carne cruda, cotta o tritata: i topi aumentavano maggiormente di peso con il cibo cotto. Oltre a questo notarono anche che i topi che per primi furono esposti allo studio, rispetto a quelli appena arruolati mostravano la tendenza a selezionare per loro regimi alimentari cotti (https://www.pnas.org/doi/full/10.1073/pnas.1112128108). 


Un ulteriore esempio molto calzante è rappresentato da quegli alimenti che sono costituiti da un’alta frazione di amido e che possono essere consumati crudi come ad esempio il mais. E’ noto infatti che l’amido crudo è difficile da digerire e gran parte di questo passa solo attraverso l’apparato digerente. Al contrario, la cottura di cibi contenenti amido può aumentare la quantità di energia disponibile di oltre il 30%. Nel caso a qualcuno sia venuto in mente che mangiare verdure crude ricche di amido suoni come una buona idea, bene…sappia che alcune di queste potrebbero risultare tossiche se non cotte. 

Un ulteriore problema con le etichette delle calorie è rappresentato dagli alimenti ultra-elaborati che come tali non esistono  in natura ma che si originano utilizzando grassi e zuccheri prodotti industrialmente. Questi alimenti molto spesso sono tagliati in piccoli pezzi ed uniti insieme, il che rende più facile la digestione, sono economici e veloci da produrre, per cui anche in questo caso gli incentivi finanziari possono giocare un ruolo importante. Molti studi hanno documentato che il consumo di alimenti ultra processati è correlato al sovrappeso ed alla obesità. Uno studio particolarmente approfondito a riguardo degli alimenti ultra-elaborati è stato pubblicato nel 2019 da un nutrito gruppo di ricercatori degli Stati Uniti e di Singapore (https://www.cell.com/cell-metabolism/fulltext/S1550-4131(19)30248-7?_returnURL=https%3A%2F%2Flinkinghub.elsevier.com%2Fretrieve%2Fpii%2FS1550413119302487%3Fshowall%3Dtrue). In questo studio sono stati reclutati 20 volontari con peso stabile e normale divisi in modo casuale in due gruppi. Ad ogni gruppo è stata assegnata la stessa quantità di calorie con la stessa frazione di nutrienti ma un gruppo ha ricevuto alimenti altamente ultra-elaborati mentre l’altro no. Potevano mangiare quanto volevano ed in conclusione i partecipanti che avevano ricevuto il cibo altamente processato hanno guadagnato peso mentre quelli dell’altro gruppo, lo hanno perso. Un ulteriore aspetto da tenere in considerazione è dato dal fatto che quando consideriamo alimenti altamente trasformati, in fin dei conti non interessano le calorie/g, bensì quelle totali. Come ben sappiamo, è possibile ridurre la quantità di calorie per grammo aggiungendo semplicemente dell’acqua. Ed ancora…ci sono molte cose che possono andare storte con la digestione, dalle intolleranze alimentari, alla mancanza di enzimi, alle allergie, alle malattie croniche e alle colonie batteriche inefficienti. Anche la lunghezza dell’intestino gioca un proprio ruolo. Ognuno di questi fattori può portare ad una sorta di malassorbimento di questo o di quell’altro nutriente. Ovviamente, il risultato non è sempre la perdita di peso, perchè se mancano alcuni nutrienti si potrebbe finire per avere fame e quindi mangiare di più. 

Quanto sino ad ora esposto, non prende nemmeno in considerazione la questione di quanta energia necessita il nostro organismo per funzionare, dal momento che questo dipende non solo da quanto ci si muove ma anche da quanta massa muscolare si possiede. Sappiamo che gli uomini tendenzialmente hanno più massa muscolare il che rappresenta il motivo principale per cui complessivamente bruciano più energia. Tuttavia, anche non volendo considerare i muscoli, occorre mantenere le funzioni corporee e quanta energia è richiesta per farlo dipende dal tasso metabolico che in parte ha cause genetiche ma anche psicologiche e da che cosa si è abituati a mangiare di solito. Ad esempio, per molte persone, il risultato di un’improvvisa diminuzione dell’apporto calorico determina che il tasso metabolico diminuisca e renda più difficile perdere peso. Aumentando l’assunzione di cibo comunque il tasso metabolico potrebbe non aumentare immediatamente per cui si aumenterebbe di peso più velocemente. 


Per tutti i motivi elencati sino ad ora, molti hanno richiesto etichette semplificate che non generino l’impressione di una falsa “accuratezza”. Un esempio di una etichetta così semplificata si chiama NutriScore, utilizzata in Francia dal 2017, non per sostituire le etichette delle calorie ma in aggiunta ad esse. Si tratta in breve di una sorta di punteggio che non tiene conto solo delle calorie ma anche della quantità di calorie rappresentate dallo zucchero, del tipo di grasso, della quantità di sale e della quantità di fibre.

Sfortunatamente questo punteggio, si basa su un semplice algoritmo che può essere violato per far sembrare sano il cibo che non lo è. Per fare un esempio è possibile coprire un alto contenuto di zucchero con un’alta percentuale di fibre. In effetti, circa il 21% degli alimenti che attualmente sono classificati come ultra-elaborati esce con una etichetta NutriScore di A o B. E in ogni caso, questo non rende le etichette delle calorie più accurate (https://www.mdpi.com/2072-6643/13/8/2783). 

Cosa si potrebbe fare allora oltre al procedimento proposto da Atwater, e di cui ho scritto sopra? Tanto per spararla grossa, per sapere dopo un pasto quanta energia si sta effettivamente utilizzando, potremmo chiuderci in una stanza e misurare la quantità di calore che si genera. Si chiama calorimetria della stanza e, sebbene venga eseguita nei laboratori di ricerca, parrebbe piuttosto scomodo restare rinchiusi 24h/24h, 7 giorni su 7 (tranne che durante il periodo dei famigerati lockdown del 2020/21 ;).

In alternativa mi verrebbe in mente di misurare i prodotti di decadimento della nostra produzione di energia, rappresentati principalmente da acqua e anidride carbonica. Ebbene sì…se si perde peso, lo si perde principalmente respirando. Secondo un articolo pubblicato su BMJ nel 2014 (https://www.bmj.com/content/349/bmj.g7257), se si perdono 10 Kg di grasso, se ne espirano 8,4 Kg sotto forma di anidride carbonica e i restanti 1,6 Kg sono acqua che entra a far parte di vari fluidi corporei. 

Sembrerebbe il segreto di Pulcinella svelato: per perdere peso occorre respirare ;-). In termini più comprensibili e solo poco meno ironici, potremmo tenere traccia di quanta energia viene bruciata misurando la quantità di Ossigeno inspirato e quella espirata di Anidride Carbonica. Ma anche in questo caso ci sarebbe un “leggero” inconveniente, ossia quello di respirare tutto il giorno attraverso una maschera. 

Pare tuttavia che ultimamente stia diventando “popolare” cercare di capire quanto si sta bruciando. Il nostro organismo può generare energia essenzialmente attraverso due modalità: una bruciando i grassi e la seconda bruciando i carboidrati, ma è anche in grado di accumulare sia i grassi che il glicogeno prodotto dai carboidrati. Risulta piuttosto esteticamente evidente dove viene immagazzinato il grasso, mentre il glicogeno viene immagazzinato nel fegato e nei muscoli; nel frattempo i carboidrati che non si utilizzano immediatamente e che non sono accumulati sotto forma di glicogeno vengono convertiti in grasso. Sappiamo molto bene che una molecola di glicogeno è più “semplice” rispetto ad una di grasso tanto quanto sia più veloce produrre energia attraverso di esso infatti il nostro corpo lo impiega per svolgere esercizi ad alta intensità energetica, come per esempio il sollevamento pesi. Tuttavia la scorta di glicogeno non dura particolarmente a lungo e di solito si esaurisce dopo poche ore, e quando la riserva di glicogeno si esaurisce il nostro corpo ricorre alla combustione dei grassi. Questo è particolarmente evidente quando per i maratoneti, per esempio, si parla del così detto “muro del maratoneta”, ossia quel momento della corsa, che in genere si manifesta attorno al trentesimo chilometro, o poco dopo, durante il quale l’atleta accusa una grande fatica improvvisa in grado di rallentare sensibilmente il ritmo di corsa e per cui si ricorre all’assunzione di zucchero. 


Questo, chiamiamolo escamotage, non è valido però per il cervello, dal momento che non “ingrana” con il grasso mentre, al contrario, ha necessità di glicogeno per funzionare per cui se non si assumono abbastanza carboidrati sarà il nostro organismo a dover convertire parte del grasso in una fonte di energia alternativa per il cervello e mi riferisco ai corpi chetonici derivanti dal metabolismo prevalentemente epatico dei lipidi e dotati di caratteristiche in grado di farli assomigliare agli zuccheri (la cheto-dieta non vi dice nulla?).

La presenza di corpi chetonici (testando il sangue, l’urina o il respiro) quindi rappresenta un segnale che il corpo non possiede abbastanza zucchero per alimentare il cervello. 

In conclusione, bruciare carboidrati rappresenta una reazione chimica diversa rispetto a quella per bruciare i grassi ed ognuna di queste reazioni produce quantità differenti di anidride carbonica rispetto a quelle dell’ossigeno assunto. Tradotto, misurando la quantità di anidride carbonica presente nel respiro è possibile capire se si stanno bruciando grassi ma il solo fatto che l’organismo stia bruciando grassi non significa che stia bruciando grassi dalle cellule adipose. Il dato certo infatti è soltanto che se si assumono grassi, questi verranno bruciati e se si è a conoscenza di cosa si sta bruciando dopo averlo ingerito è troppo tardi, il che ci riporta alla necessaria richiesta di etichette alimentari affidabili. 

venerdì 26 aprile 2024

SE LANCIO UNA MONETA, HO PARI POSSIBILITA’ DI OTTENERE TESTA O CROCE? ….NO!!!


Secondo la statistica “basic” che testa e croce abbiano la stessa possibilità di uscita dopo il lancio di una moneta è pari ad un 50 e 50.

Almeno questo è quanto ci hanno raccontato per anni. Ma le cose stanno davvero così?


Già nel 2007, tre fisici, Diaconis Holmes e Montgomery (modello D-H-M appunto), pubblicarono un articolo in cui sviluppavano un modello per monitorare il lancio di una moneta. In breve, la loro conclusione può riassumersi con il fatto che il risultato del lancio di una moneta dipende da quale lato è rivolta verso l’alto quando si lancia e dall’angolo tra la direzione dell’angolo ed il momento angolare L (momento di inerzia I x la velocità angolare ω del corpo che ruota) come da illustrazione. Hanno scoperto che calcolando la media su condizioni iniziali ragionevoli, la probabilità che la moneta ricada con lo stesso lato rivolto verso l’alto al momento del lancio, non è del 50 ma bensì del 51% (https://www.researchgate.net/publication/251525331_Dynamical_Bias_in_the_Coin_Toss).

In un secondo articolo del 10/10/23 (https://www.researchgate.net/publication/374700857_Fair_coins_tend_to_land_on_the_same_side_they_started_Evidence_from_350757_flips), un gruppo di 48 scienziati si è cimentato nell’effettuare oltre 350.000 lanci di monete notando che le monete hanno effettivamente una probabilità leggermente maggiore di ricadere con lo stesso lato rivolto verso l’alto al momento del lancio. 50,8% Vs 49,2% rispettivamente, confermando quindi i risultati dello studio del 2007. 


PS: la prossima volta che vi propongono un lancio di monetina per dirimere una questione qualsiasi, bhe...pensateci prima.  


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