mercoledì 26 ottobre 2022

UNA “STORIA CONTROVERSA”: LA DIFFRAZIONE ELETTRONICA E LO SVILUPPO DI NUOVI FARMACI.


Premessa: la cristallografia a raggi X rappresenta il gold standard per capire che aspetto abbia una molecola nelle sue tre dimensioni, consentendo in tal modo ai ricercatori di capire esattamente come gli atomi della molecola siano collegati tra loro.

Ciò è reso possibile osservando l’immagine ottenuta dalla diffrazione dei raggi x per cui valutando gli angoli ed altri parametri con cui questi ”escono” dalla molecola, se correttamente decodificati, possono rivelarne le strutture.

Se facciamo un passo indietro sino al 2010, a Tim Gruene, all’epoca ricercatore associato alla Georg-August-Università di Goettingen, giunse all’orecchio che la casa farmaceutica Novartis avesse accumulato qualcosa come 2 milioni di piccole molecole, di cui solo il 10% poteva essere analizzato utilizzando la cristallografia a raggi X, e questo perché, essendo di dimensioni troppo piccole, l’analisi ai raggi X, non era in grado di fornire dati sufficienti per poter essere elaborati.

Credo sia chiaro per tutti che se questi dati risultano ambigui, per i chimici, prendere una “cantonata”, sbagliando ad inquadrarne la struttura, sarebbe un gioco da ragazzi. Soprattutto se il tentativo è volto a comprendere, per la prima volta, il modo in cui la molecola si possa legare al suo sito attivo per migliorare le proprietà biologiche di un composto, esponendosi così al rischio di intraprendere un percorso di sviluppo erroneo che potrebbe costare tempo e denaro.


Anni dopo, quando Gruene si dedicò ad un nuovo progetto per lo studio delle proteine, egli tenne ben in conto di queste difficoltà, per cui nel suo laboratorio impiegò la tecnica della diffrazione elettronica, nota come 3D ED o microED (argomento questo piuttosto controverso) mediante la quale i raggi X furono sostituiti da un fascio di elettroni con cui era possibile ottenere dati da cristalli molto più piccoli (fino a 100 nm), rispetto a quelli ottenibili con i soli raggi X che potevano coinvolgere al massimo cristalli di dimensioni dell’ordine dei micron.

Di lì a pensare di poter usare la diffrazione elettronica per scoprire le caratteristiche di struttura di quei 2 milioni di piccole molecole targate Novartis, per Gruene, fu un attimo. Per questo motivo decise di spostare la propria attenzione dallo studio sulle proteine a quello sulle piccole molecole che avrebbero potuto evolvere in nuovi farmaci innovativi.

Il fatto curioso era che, a quell’epoca, Gruene non era a conoscenza del fatto che già da decenni alcuni gruppi di ricerca avevano sviluppato tecniche basate sulla diffrazione elettronica per analizzare molecole molto piccole, e questo poiché nel campo della chimica organica per lo sviluppo di nuovi medicinali, questa metodica non aveva ancora assolutamente preso piede. 


Una svolta la si ebbe nell'ottobre 2018 quando Gruene, diventato nel frattempo Direttore del Centro per l'analisi della struttura ai raggi X presso l’Università di Vienna, guidò un gruppo di ricerca che rese più comprensibile come adattare un microscopio elettronico in modo che il suo diffrattometro potesse essere utilizzato per comprendere la struttura di molecole organiche di piccole dimensioni (cristalli in polvere ad es). Per farla breve, a tal fine e con un occhio al settore farmaceutico, i ricercatori “aprirono” una compressa  per il trattamento del comune raffreddore, utilizzando la diffrazione elettronica per descrivere la struttura della polvere di paracetamolo rinvenuta all'interno (https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/anie.201811318).

Apriti cielo!!! Il giorno dopo che lo studio di Gruene apparve online, un gruppo di ricercatori, tra i quali Hosea M.Nelson, del Caltech a Pasadena, si affrettò immediatamente a precisare sul server di preprint ChemRxiv (della serie “mamma ci hanno rubato la marmellata”), che la tecnica della diffrazione elettronica per svelare le strutture di piccole molecole organiche, compresi farmaci e prodotti naturali, era da loro ampiamente utilizzata già da parecchi anni.

Sta di fatto che queste esternazioni, contribuirono ad attirare l’attenzione di chi con la chimica organica era da tempo impegnato sul fronte dello sviluppo dei farmaci e che grazie a questa tecnica avrebbero potuto approcciarsi al problema, in modo totalmente alternativo rispetto al passato.


lunedì 17 ottobre 2022

IL NOBEL PER CHIMICA 2022…CALA IL TRIS.


Sono tre gli scienziati che si sono aggiudicati il Premio Nobel per la chimica 2022 (quello per la biologia, che non esiste, resterà confinato in qualche cassetto per almeno un altro annetto, sino a quando ognuno non ne avrà uno proprio… sarebbe l’ora): Carolyn R. Bertozzi della Stanford University, Morten Meldal dell'Università di Copenaghen e K. Barry Sharpless della Scripps Research in California. Motivazione? La ricerca sulla Click Chemistry e sulle reazioni bioortogonali.

La click chemistry, introdotta da Barry Sharpless sin dal 2001 può essere “volgarmente” tradotta come la chimica del clic o chimica a scatto, e comporta reazioni che uniscono due molecole sintetiche in modo rapido e irreversibile. Alcune di queste reazioni possono essere “riprodotte” all'interno delle cellule viventi senza “alterare” i processi biochimici (reazioni bioortogonali), e la cicloaddizione azide-alchino catalizzata dal rame ne rappresenta la punta di diamante (“una reazione chimica elegante ed efficiente ora ampiamente utilizzata”). Tra i molti risvolti infatti, tanto per farla semplice, ricordo lo sviluppo di nuove generazioni di farmaci come ad esempio gli ADC - Antibody Drug Conjugates - prodotti biofarmaceutici innovativi in cui un anticorpo monoclonale (mAb) si lega ad un farmaco citotossico grazie ad un linker stabile per sviluppare trattamenti innovativi contro il cancro ed altre svariate patologie, non dimenticando anche l’utilità di impiego per mappare il DNA. Le biomolecole vengono “etichettate” con sonde fluorescenti per avere ben chiaro il funzionamento interno della biochimica cellulare e quindi rivelare le possibili interazioni molecolari in tempo reale.


Il primo approccio alla “click chemistry” risale a circa 20 anni fa quando Sharpless e Meldal la svilupparono, ognuno per conto proprio, sino ad ottenere, come scritto prima, una reazione catalizzata dal rame tra un'azide e un alchino in grado di ottenere un triazolo come unico prodotto altamente stabile. Del resto, i chimici, erano soliti utilizzare questo tipo di reazione di cicloaddizione, ma mai ebbero prima di allora sentore che la “chiave di volta” per rendere queste reazioni più rapide e selettive, risiedesse nella proprietà di catalizzazione da parte del rame. 

Cronologicamente parlando, quando Sharpless e Meldal iniziarono a diffondere le prime conoscenze circa la click chemistry, Carolyn Bertozzi aveva già da alcuni anni (anni 90 all’incirca), coniato il termine di reazioni bioortogonali sfruttando la reazione di Staudinger

per far reagire un'azide con un estere di fosfina, al fine di aggiungere tag fluorescenti alle molecole di zucchero chiamate glicani presenti sulla superficie cellulare. Tuttavia questo tipo di reazione era troppo lenta per adattarsi alle tecniche di imaging (ossia filmare eventi che si svolgono nell'arco di alcuni picosecondi o femtosecondi, a carico di atomi che cambiano posizione, spostandosi solamente di pochi picometri) che lei aveva in mente. Fu questo il motivo che la indusse a prendere in considerazione l’utilizzo della click chemistry, facendo conto ovviamente sulla sua relativa maggiore rapidità di svolgimento.

Ma prima occorreva risolvere un “problemino” non certo di poco conto, dal momento che gli ioni rame utilizzati nella classica reazione a click risultavano essere tossici per le cellule viventi. La soluzione fu trovata dalla Bertozzi nel 2004: una reazione a clic tra un'azide e il cicloalchino più piccolo noto(C8H12) o ciclo-ottino che non necessita di alcuna catalisi metallica e quindi priva di alcuna tossicità. 


Ciò significava quindi non incorrere in alcuna interferenza con la biochimica di una cellula vivente in modo piuttosto “semplice”: etichettare i glicani sulla superficie delle cellule con gruppi azidici, o ancor più semplicemente impiegare la loro click chemistry per taggare con molecole fluorescenti i glicani in modo che potessero essere tracciati utilizzando tecniche di microscopia.


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