lunedì 20 giugno 2022

KAREN WETTERHAHN, CHI ERA COSTEI?…ED IL MESE DI GIUGNO NON E’ CASUALE.


Laureata in chimica, oggi avrebbe 73 anni. Iniziò la sua carriera a Dartmouth nel 1976, dove fece notizia essendo stata la prima donna assunta in una posizione di rilievo all’interno del dipartimento di chimica. La ricerca che la vide impegnata si focalizzò sulla comprensione di come il cromo, un metallo pesante, potesse danneggiare il DNA e causare il cancro. Nel 1995, ricevette dal National Institute of Environmental Health Sciences il più grande finanziamento della storia del Dartmouth College, pari a 7 milioni di dollari, per dare vita a un programma di ricerca sugli effetti dei metalli pesanti (il Dartmouth Toxic Metals Superfund Research Program). Probabilmente questo gravoso impegno le sarebbe valso la medaglia Priestley, la più alta onorificenza assegnata dall'American Chemical Society.

Nel corso della sua vita, occupò anche ruoli amministrativi, diventando preside della facoltà di arti e scienze presso il  Dartmouth College, ma amava troppo il proprio lavoro e la ricerca, per poter rinunciare al suo laboratorio per ricoprire qualsiasi altra impegnativa posizione. La Wetterhahn era talentuosa e ambiziosa. Era anche gentile e generosa con i suoi colleghi e amici e morì nel 1997 per avvelenamento da dimetilmercurio dopo esservi stata accidentalmente esposta nel suo laboratorio.

In questi 25 anni, la sua influenza non è mai svanita ed anzi, sono emersi elementi capaci di far apprezzare sempre di più ciò che ci lasciò in eredità. I suoi contributi per comprendere la tossicità del cromo o i suoi sforzi per aiutare le donne ad avere successo in ambito accademico e scientifico, furono evidenti fin dall’inizio del suo operato. Altri, come i cambiamenti da applicarsi alle norme di sicurezza all’interno di ciascun laboratorio, sono emersi solo dopo la sua morte e tutto questo contribuisce a definirla come una pioniera nel proprio campo e spiega il motivo per cui la sua influenza continuerà a farsi sentire nei modi più disparati negli anni a venire.


Come se disponessimo di una macchina del tempo ritorniamo al 14 agosto del 1996. Karen Wetterhahn, sino a quel momento, aveva dedicato la gran parte del proprio lavoro allo studio del metallo pesante Cromo e ai suoi effetti tossici sulle persone. Questa correlazione non era casuale. Ricordate la battaglia legale a sfondo ambientale guidata dall'attivista Erin Brockovich in California nel 1993, da cui fu tratto il bellissimo film con Julia Roberts? Bene, sappiate che a quel tempo, gli scienziati sapevano che il cromo esavalente danneggiava il DNA, ma ignoravano le modalità per cui ciò potesse accadere. Ed era appunto per questo motivo che la Wetterhahn aveva in programma di eseguire alcuni esperimenti sul mercurio e per cui si mise al lavoro, a capo del proprio gruppo di ricerca, armeggiando sotto una cappa nel laboratorio ove era solita studiare. Qualcuno si potrebbe chiedere che cosa ci azzecca il mercurio, con lo studio sul cromo e relativi effetti. Bene, questa è la motivazione. La Wetterhahn stava collaborando con i colleghi dell'Università di Harvard e del Massachusetts Institute of Technology per studiare le proteine (circa 3.000), contenenti lo zinco (un altro metallo pesante come il cromo), in grado di riparare i danni causati al DNA, partendo dal presupposto che la comprensione dei meccanismi di riparazione del DNA avrebbe potuto fornire ottime informazioni su come potesse avvenire una simile tipologia di danno. E per questo motivo, pensò che il legame tra zinco e proteine, sarebbe stato indagato grazie all’impiego della spettroscopia RMN (Risonanza Magnetica Nucleare), una tecnica analitica usata per determinare la struttura molecolare e la composizione chimica di un determinato campione.


Purtroppo lo zinco non è facilmente visibile alla RMN, per cui si decise di impiegare il mercurio, il cui isotopo ¹⁹⁹ Hg può essere più facilmente indagato con la RMN. Ovviamente, l’apparecchiatura avrebbe dovuto essere adeguatamente “calibrata” per lo scopo. Inizialmente Karen Wetterhahn ed il suo gruppo di ricerca, provarono con il cloruro di mercurio, ma essendo i risultati insoddisfacenti, optarono per il più conosciuto ma anche notoriamente tossico dimetilmercurio. Infatti, questo composto organico del mercurio è facilmente assorbito dall'organismo, anche attraverso la pelle, e nell’organismo si converte in metilmercurio che legandosi a proteine e peptidi consente a questo metallo pesante di superare la barriera ematoencefalica. Una volta raggiunto il cervello va ad interferire con i processi che proteggono i neuroni dall'ossidazione e stimola una risposta immunitaria in grado di attaccare quelle proteine che sono fondamentali per il normale funzionamento cerebrale.


Fu la stessa ricercatrice che, da sola, quel giorno infausto decise di maneggiare una provetta sigillata con all’interno un liquido costituito al 98% da dimetilmercurio; ma alcune gocce caddero dalla pipetta sul dorso della mano, rigorosamente protetta con un guanto in lattice che all’epoca costituiva il materiale standard per i guanti da laboratorio. Di ciò abbiamo pressoché certezza dal momento che fu trovato nel laboratorio un documento simile ad una scheda tecnica con le raccomandazioni per il rispetto delle misure di sicurezza (https://s3.documentcloud.org/documents/22015868/msds-from-wetterhahns-lab.pdf).

Nessuna delle persone successivamente intervistate ricordò che la Wetterhahn avesse mai rivelato l’accaduto e a ben pensarci, non ne avrebbe avuto nemmeno il motivo dal momento che in fin dei conti lei aveva indossato quelli che si pensava fossero i dispositivi di protezione individuali più appropriati per trattare un elemento che certamente si sapeva essere tossico, ma non così devastante e mortale. Trascorsero ben 5 mesi prima che le conseguenze di quell’incidente diventassero evidenti, con problemi allo stomaco, di deambulazione e di normale capacità nel parlare. Solo a quel punto si decise di consultare un medico, ma nel giro di poche settimane entrò in coma e l’8 Giugno del 1997 spirò. Aveva 48 anni.


Dal punto di vista chimico-fisico, il dimetilmercurio è un composto volatile, pesante, con una densità circa tre volte maggiore dell’acqua, non è polare e quindi capace di sviluppare una bassa tensione superficiale. Probabilmente, proprio queste proprietà avrebbero facilitato la fuoriuscita involontaria di una o più gocce dalla pipetta, rendendo così evidente al mondo scientifico quanto fosse pericoloso e mortale oltre a quanto fossero inadeguate le misure di sicurezza consigliate per il suo impiego in laboratorio.

"Sapevamo che il [dimetilmercurio] era tossico", si può leggere in una intervista a Thomas V. O'Halloran, professore di chimica alla Michigan State University, ma "Non avevamo idea di quanto potesse essere così incredibilmente tossico."

Ed occorre anche sottolineare quanto potesse essere pericoloso (e lo è tuttora) lavorare sotto una cappa in un laboratorio, soprattutto quando si ha anche a che fare con i metalli pesanti. Ovviamente Karen Wetterhahn, di questo, ne era ben consapevole.


Sembra fuori da ogni logica, ma commemorare una figura così importante e significativa, per rendere noto del perché ed in che modo un composto come il dimetilmercurio sia così tossico e mortale, a mio avviso, ha del paradossale.

Nessuno sa esattamente quante gocce di dimetilmercurio siano finite sul guanto della Wetterhahn, o quanto il suo organismo ne abbia assorbito. In questo articolo del N. Engl. J. Med. (1998, DOI: 10.1056NEJM199806043382305) si legge che le furono rilevati, dopo un prelievo ematico, 4.000 μg/L di mercurio e dobbiamo considerare che normalmente i livelli di mercurio nel sangue sono compresi in un range tra 1 e 8 μg/L in persone non sottoposte a rischio professionale, mentre i tossicologi considerano la dose letale pari a 200 μg/L .

Christy Bridges esperta in avvelenamenti da mercurio, professoressa alla School of Medicine della Mercer University, dopo aver esaminato su richiesta di C&EN i rapporti sull'incidente e sulla sintomatologia accusata dalla Wetterhahn (poiché i composti organici del mercurio si accumulano nei capelli e nelle unghie, i medici in ospedale raccolsero anche un campione dei capelli che ovviamente mostrò un elevato aumento dei livelli) ha dichiarato: ” Certamente l'estrema tossicità relativa al dimetilmercurio è stata una sorpresa per tutti. Esaminando i fatti di quanto accaduto non vi è alcun motivo per poter pensare a qualcosa che non sia imputabile ad un incidente di laboratorio,  ma resta tuttavia difficile da comprendere come solamente poche gocce di un qualsiasi composto, possano aver causato una sintomatologia come quella accusata dalla nota ricercatrice” - con così poche informazioni, non è facile contestualizzare i danni organici che si manifestarono - “Purtroppo, non abbiamo dati sufficientemente esaustivi sulla tossicità del dimetilmercurio per poter comprendere appieno come questo influisca sul corpo umano; tale composto è così pericoloso che studi futuri sono improbabili, sia pur condotti sugli animali”.

Ed infatti ancora venticinque anni dopo, gli esperti concordano sul fatto che è difficile spiegare quanto accadde a Karen Wetterhahn e che ancora poco si conosce circa gli effetti dell'avvelenamento da dimetilmercurio. La letteratura scientifica riporta solo quattro decessi e la sua morte si annovera tra questi (Int. Arch. Arbeitsmed. 1974, DOI: 10.1007/BF00538936 ; Chem. Br., luglio 1989, pagina 702). 


La Sua eredità


Con la sua morte Karen Wetterhahn ci ha lasciato molto in eredità, prima tra tutti la consapevolezza provata di quanto possano essere tossiche alcune sostanze chimiche e quanto sia importante disporre di sempre più chiare ed aggiornate normative ed informazioni per poter lavorare in laboratorio in piena sicurezza, disponendo anche di adeguati dispositivi di protezione.

E questo nonostante la legge federale richiedesse già a produttori e distributori di fornire quelle che sono definite schede che riportano, soprattutto anche per le sostanze ritenute pericolose, le proprietà di base delle sostanze chimiche, i loro pericoli e le precauzioni da adottare durante la manipolazione. 

Secondo quanto emerso dopo le indagini, la Wetterhahn disponeva di tre informative circa il trattamento del dimetilmercurio. Una consigliava di indossare guanti di gomma, un’altra di indossare "guanti adeguati resistenti alle sostanze chimiche" mentre la terza di indossare guanti in neoprene. (Appl. Occup. Environ. Hyg. 2001, DOI: 10.1080/104732201460389).

Come sappiamo, al momento dell’incidente, la ricercatrice indossava guanti in lattice. Per questo motivo Michael Blayney, ora direttore esecutivo della ricerca sulla sicurezza presso la Northwestern University, ha incaricato un laboratorio indipendente di testare i diversi tipi di guanti trovati nel laboratorio di Karen per scoprire quanto velocemente il dimetilmercurio fosse in grado di penetrarli.

Il risultato si è rivelato allarmante (https://s3.documentcloud.org/documents/22015867/intertek-test-results-wetterhahn.pdf), il dimetilmercurio era capace di penetrare attraverso i guanti molto più velocemente di quanto chiunque si sarebbe mai aspettato: 15 - 20 sec per i guanti in lattice e circa 10 minuti per quelli in neoprene. L'unico dispositivo di protezione affidabile che Blayney e Collaboratori sono stati in grado di identificare era un guanto in neoprene indossato sopra un guanto di plastica laminata. Da qui l’invito espresso a tutta la comunità scientifica per adoperarsi al meglio per raggiungere standard di sicurezza sempre migliori. Per “calibrare” l’apparecchiatura atta ad effettuare una spettroscopia RMN (Risonanza Magnetica Nucleare), T. V. O’Halloran della Michigan State University ha successivamente pubblicato un vademecum con le nuove procedure imposte per adempiere a questa necessità, in cui, in luogo del dimetilmercurio, si suggerisce l’impiego del perclorato di mercurio (https://sites.northwestern.edu/ohalloran/199hg-nmr-standards/). Il tutto confermato anche dal bollettino dell’OSHA che si può leggere a questo link: (https://www.osha.gov/publications/hib19980309).


Anche la modalità con cui seguiva rigorosamente il proprio metodo scientifico ci è stata lasciata in eredità, ovvero la risoluzione dei problemi scientifici grazie ad una attenta e rigorosa valutazione dei dati disponibili, interpretati analizzandoli da ogni prospettiva possibile. William A. Suk, allora direttore del National Institute of Environmental Health Sciences (NIEHS) del National Institutes of Health scrisse di lei: “Karen era una delle migliori nel campo dello studio tossicologico dei metalli pesanti, ma diventava insuperabile quando si trattava di cromo”.

Ed infatti fu in grado di sviluppare quello che è noto come il modello di assorbimento-riduzione del cromo e relativa tossicità. Ricordo che il Cromo è un elemento che può esistere in molti stati di ossidazione (da 0 a + 6 o esavalente); con il numero di ossidazione +2 si comporta come metallo, con il numero di ossidazione +3 si comporta da metallo, ma anche da non metallo, formando un ossido anfotero, mentre con il numero di ossidazione +6 si comporta da non metallo e forma di conseguenza un ossido acido (o anidride).

Karen Wetterhahn ne studiò appunto sia la tossicità che la cancerogenicità, scoprendo i processi metabolici ed i relativi meccanismi coinvolti nei vari passaggi di riduzione ossidativa del Cromo. Il primo meccanismo include radicali idrossilici altamente reattivi e altri radicali  prodotti dalla riduzione del cromo +6 a cromo +3. Il secondo processo include il legame diretto del cromo +5 (con il +4 molto raro), prodotto dalla riduzione nella cellula, e dei composti di cromo +4 al DNA. L’ultimo meccanismo ha attribuito la genotossicità al legame con il DNA del prodotto finale della riduzione a cromo +3. 

(https://journals.sagepub.com/doi/10.3109/10915818909009118 ).


L’ultimo aspetto lasciatoci in eredità, estremante attuale ed importante, riguarda i diritti delle donne impegnate nel campo scientifico. "Renderò il percorso per le donne che verranno dopo di me molto più agevole rispetto a quello delle donne che sono venute prima" dichiarò un giorno Karen. Probabilmente a causa delle esperienze che visse in quanto donna in un campo che era, ed è tutt’ora, dominato dagli uomini (https://cen.acs.org/careers/diversity/struggle-keep-women-academia/97/i19), all’inizio degli anni ’90 avviò un programma di tutoraggio con esperienze dirette da compiersi nel campo della ricerca noto come The Women in Science Project (WISP) of Dartmouth (https://students.dartmouth.edu/wisp/).


Insomma, Karen Wetterhahn fu e resta tutt’ora una fonte imprescindibile di ispirazione.


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