lunedì 27 giugno 2022

MALATTIE RARE, FARMACI ORFANI E RARE-X


L’aver prospettato aiuti ed incentivi per lo sviluppo di nuovi farmaci indispensabili per la cura di patologie rare ha consentito di raggiungere nuove frontiere in ambito terapeutico anche se a volte ho il sospetto che questi incentivi assomiglino sempre di più alla classica carota. Quante volte infatti abbiamo letto o ascoltato che i prezzi di questi farmaci stanno diventando sempre meno sostenibili per i sistemi sanitari che devono garantire a tutti equamente l’accesso a cure efficaci? Questa osservazione reggerebbe nella misura in cui il servizio sanitario si trasformasse in sistema sanitario - la differenza dovrebbe essere evidente ma googolando la si trova facilmente - e si conferisse al sistema in quanto pubblico, un valore sociale. Tradotto, mi riferisco all’Italia, regolamentata per quanto riguarda il “diritto alla salute” da un servizio sanitario, non già da un sistema sanitario, ossia da un modello sanitario in cui lo Stato si occupa (integralmente o in parte) di gestire e regolamentare gli aspetti della sanità. E qui, purtroppo casca l’asino, dal momento che il nostro diritto alla salute esiste in funzione di un budget che è stabilito per soddisfarlo finito il quale, finito il diritto. C’è qualcuno che non è d’accodo? Sul serio? Ok che la memoria può essere molto molto corta, ma dovremmo aver imparato molto bene che cosa sia accaduto al Nostro budget negli ultimi 30 anni!!!

Bene, fatta questa debita premessa, non volendo tediare nessuno con questioni più politiche che scientifiche ( ma con cui purtroppo dobbiamo fare i conti ogni santo giorno) ecco una prima sbirciatina su questo mondo che esiste, eccome se esiste, ma che pare sempre aleggiare al di sopra delle nostre teste. A questa sbirciatina seguirà subito dopo un resoconto più “concreto” sul piano d’azione quinquennale che l’FDA ha in serbo per i farmaci che agiscono sui disturbi neuro-degenerativi, con una particolare attenzione per la SLA (amyotrophic lateral sclerosis).


Chissà in quanti conoscono RARE-X e che ruolo giochi nell’ambito delle malattie rare. RARE-X è una organizzazione senza scopo di lucro che si dedica alla raccolta, strutturazione e condivisione di dati critici dei pazienti su larga scala, per aiutare ad accelerare la diagnosi, la comprensione delle malattie rare e lo sviluppo di trattamenti e cure future.

Ed ora sostiene a gran voce che la questione di quante malattie rare esistano non sia una semplice curiosità numerica, ma che al contrario abbia una forte implicazioni nel mondo reale dal momento che questo numero impatta fortemente su come queste patologie possano essere curate. Abbiamo sottovalutato le malattie rare? Questa è la domanda che si è posta l’organizzazione, ed a cui è seguita la relativa risposta attraverso la pubblicazione del rapporto “Power of Being Counted” (https://rare-x.org/case-studies/the-power-of-being-counted/) che rivela numeri precedentemente e gravemente sottostimati ma che per decenni sono stati utilizzati per definire le malattie rare e per influenzare molte decisioni politiche che bene o male, ma personalmente lascerei solo “nel male”, hanno impattato sulla ricerca biomedica. Questo rapporto ha messo in luce malattie rare che in precedenza non erano mai state contate, riconosciute e che quindi, hanno “volato” talmente basso da sfuggire a qualsiasi radar a disposizione di ogni team di ricerca clinica.


Generalmente i rapporti sulle malattie rare provengono da due fonti. Più precisamente il National Institutes of Health, stima che ci siano circa 7.000 malattie rare conosciute, mentre la Commissione Europea fa riferimento ad un intervallo compreso tra 5.000 e 8.000 patologie. 

Purtroppo queste stime sono sempre le stesse ed utilizzate da anni, il che significa che, anche se inizialmente accurate, mancano del tutto alla conta le centinaia di malattie genetiche che si sono aggiunte ogni anno grazie all’allargamento delle conoscenze acquisite dalla scienza medica nel suo complesso.

Per questo motivo RARE-X è andata a mettere il naso nei due principali database internazionali, Orphanet e Online Mendelian Inheritance in Man, con la speranza di ottenere una cifra precisa e aggiornata. Speranza che non fu vana dal momento che, dopo aver incrociato i dati dei due database, si è giunti ad un nuovo numero: 10.867. Spero sinceramente che questo dato indubbiamente impressionante renda a sufficienza l’idea delle implicazioni che si porta appresso.  


L'ottanta per cento delle malattie rare è diagnosticabile. Teoricamente!!! Perché già evidenziate a carico di uno dei genitori o perché classificate in diversi sottotipi e caratterizzate da tre o più fenotipi (le manifestazioni cliniche/sintomatologiche con cui si esprime il genotipo della malattie). Il restante 20% è poco definito, il che significa che non include più di due fenotipi. Più della metà delle malattie mal definite non ha una causa genetica nota ed 1/3 sono malattie non genetiche.

Plausibile comunque che la discrepanza tra la cifra dedotta dall’analisi di RARE-X rispetto alle stime di cui sopra sia da addebitarsi probabilmente alla decisione di enumerare i vari sottotipi delle malattie rare come se si trattasse di condizioni separate e ben distinte. Tanto per fare un esempio che risulti chiaro a chiunque, la malattia di Batten riferita e numerata dalle due fonti fin qui utilizzate, è considerata alla stregua di un’unica condizione, mentre l'analisi RARE-X inserisce come condizioni a se stanti anche i 6 sottotipi in cui la malattia è stata suddivisa. 


Nonostante si legga o si ascolti qua e là ancora la farneticazione espressa da qualcuno talmente sveglio nonché molto informato che ha capito tutto, ma proprio tutto tutto eh, per cui  i farmaci per le malattie rare rappresentano una miniera d'oro per le aziende farmaceutiche (tanto da essere definiti “orfani”…così…”ad minchiam” vero? Ed indipendentemente dall’essere approvati o meno), a beneficio, tutto sommato, di un numero ristretto di persone, per cui “vade retro” perché, dato il prezzo, potrebbero abbassare il budget ( si, proprio quel budget di prima), dobbiamo fare i conti anche con un’ altra nota dolente. Non per infierire sia inteso, ma trattasi di quegli stessi individui che pensano che per sviluppare un farmaco bastino qualche manciata di milioni e che le approvazioni degli enti regolatori non contino una mazza, perché i ricercatori fanno male i trials o non fanno quelli esatti. 


E la nota dolente è data dal fatto che, secondo il rapporto di Global Data che ha passato al setaccio più di 700 studi clinici sulle malattie rare, più di un quarto degli studi è stato interrotto e cancellato tra il 2016 e il 2020 a causa della bassa percentuale di pazienti reclutabili a causa della precarietà delle condizioni richieste per rendere i pazienti arruolabili. Inoltre, come se non bastasse, dal rapporto è emerso anche che il 12%, il 6% ed un ulteriore 6% degli studi è stato mandato a gambe all’aria rispettivamente a causa della mancanza di efficacia, delle decisioni aziendali e strategiche e del mancato sviluppo del farmaco.

(https://www.fiercebiotech.com/cro/more-than-a-quarter-rare-disease-trials-are-culled-due-to-low-patient-rates-report).


Esiste una soluzione che risolva, almeno in parte, il problema del reclutamento? La pandemia ha favorito, indirettamente, lo sviluppo di nuovi modelli di trial sempre più basati su interazioni virtuali tra i medici e i loro assistiti, per garantire la continuità delle cure pur mantenendo il distanziamento. Si sono acquisite nuove tecnologie informatiche che hanno così permesso il diffondersi delle DCT o sperimentazioni cliniche decentralizzate.  Quindi questa è la via da seguire, senza se e senza ma. Ricordiamoci che il 95% di queste condizioni cliniche non ha un trattamento approvato dalla FDA, il che si traduce in un significativo e “disperato” bisogno insoddisfatto per questi pazienti.


UN BOTTA E RISPOSTA..FOR AFRICA


 BioNTech ha rivelato la sua ambiziosa iniziativa di produzione di vaccini in Africa (https://www.fiercepharma.com/manufacturing/biontech-plots-first-modular-mrna-factory-africa-by-middle-2022) subito dopo che la rivista medica BMJ ( https://www.bmj.com/content/376/bmj.o304) ha accusato l’industria farmaceutica con particolare riferimento alla  kENUP Foundation, una società di con sede a Malta che negli ultimi anni ha collaborato con BioNTech alla campagna finanziata dall'UE "eradicateMalaria", di minare gli sforzi dell'OMS per trasferire la produzione dei vaccini contro la COVID-19 in Africa, non sostenendo le aziende locali. 

Ed è così che ora si è passati dalle parole ai fatti. BioNTech ha iniziato a mantenere la sua promessa di portare in Africa una rete di produzione di vaccini ad mRNA end-to-end (un insieme di step legati tra loro in maniera organizzata, dove ogni passaggio consente il monitoraggio dei diversi processi dall’inizio alla fine) e lo sta facendo bene tanto e vero che il Presidente del Ghana, Akufo-Addo, il Presidente del Ruanda, Paul Kagame, ed il CEO di BioNTech, Uğur Şahin hanno recentemente celebrato l'inizio della costruzione del primo impianto di produzione di vaccini a mRNA.

L’azienda ha aperto i battenti con un sito a Kigali, in Ruanda, da dove inizierà l'ambizioso progetto che prevede l’invio di due impianti produttivi (il primo entro la fine dell’anno) strutturalmente molto flessibili e modulari alloggiati in container trasportati via mare. La produzione dovrebbe iniziare entro un anno dalla consegna dei BioNTtainer. I piani prevedono inoltre la creazione di strutture simili in Senegal e Sud Africa. 

BioNTech ha soprannominato questi due moduli prefabbricati BioNTtainers, un’idea nata solo quattro mesi fa. Di cosa si tratta?


Ogni 'BioNTainer' è composto da un modulo (un locale sterile equipaggiato con una strumentazione all'avanguardia) adatto alla produzione di vaccini ad mRNA, spediti in sei container ciascuno (2,6 x 2,4 x 12 m) per un totale complessivo di 12 container che occupano uno spazio totale di circa 800 mq. Insieme, i due moduli dovrebbero garantire una produttività iniziale stimata annuale di 50 milioni di dosi del vaccino anti Covid Pfizer-BioNTech. Le fasi di riempimento e confezionamento del vaccino saranno prese in carico dai partner locali. Cosa non meno importante, i BioNTainer potrebbero anche essere impiegati per la produzione di vaccini contro la tubercolosi e l'HIV.


Stando così le cose Il progetto di BioNTech risulta perfettamente allineato con gli sforzi anche economici che l’Africa sta compiendo per rendersi indipendente dagli altri Paesi per quanto riguarda la fornitura di farmaci ed in particolare modo di vaccini. Il presidente dell’African Development Bank, Akinwumi Ayodeji Adesina, ha presentato a Kigali, in Ruanda, l’Africa Pharmaceutical Technology Foundation, una fondazione che consentirà all’Africa di sfruttare i diritti di proprietà intellettuale, le relative tecnologie e quelle che saranno le future innovazioni per poter espandere gli svariati settori della produzione farmaceutica.


 “L’Africa importa dall’80% al 90% di tutti i suoi medicinali – ha detto Adesina – per una popolazione di 1,3 miliardi di persone. Non possiamo e non dobbiamo affidare la sicurezza sanitaria dell’Africa alla benevolenza degli altri”.  Impossibile e da stolti, a mio avviso, non essere pienamente d’accordo.

giovedì 23 giugno 2022

PAXLOVID ED IL FANTASMA DEL RISCHIO STANDARD


Che qualche cosa non filasse proprio liscio liscio e che la pentola iniziasse a ribollire lo avevo accennato qui: https://ilgeneegoista.blogspot.com/2022/05/una-tiratina-dorecchie-di-cui-sentiremo.html.

L’antivirale Paxlovid si è dimostrato efficace nei pazienti con diagnosi di COVID-19 ad alto rischio di sviluppare una malattia in forma grave. Ma il farmaco antivirale sembrerebbe non in grado di assicurare gli stessi benefici per quei pazienti definiti a “Rischio Standard”, ovvero quella popolazione di pazienti che pur avendo contratto l’infezione, risultano assolutamente meno vulnerabili dal punto di vista di evoluzione negativa del quadro clinico.


La Pfizer, con un comunicato diffuso lo scorso martedì 14 Giugno 2022 (https://www.businesswire.com/news/home/20220613005755/en/) ha di fatto interrotto l’arruolamento dei pazienti nell’ambito dello studio EPIC-SR che sta valutando Paxlovid in quei pazienti per l’appunto classificati a rischio standard, e per la precisione pazienti adulti non vaccinati che non abbiano alcun fattore di rischio che indichi la possibilità di una evoluzione in forma grave della malattia, oltre a pazienti vaccinati che, al contrario, mostrino almeno un fattore di rischio. 

In una precedente analisi intermedia resa nota, lo Studio clinico EPIC-SR aveva già fallito il raggiungimento del proprio “End point PRIMARIO” poiché il noto antivirale non aveva dimostrato maggiore attività rispetto al placebo nel ridurre e controllare tutti i sintomi per quattro giorni consecutivi. Anche l’”End Point SECONDARIO”, in quella fase, con una riduzione del rischio di ospedalizzazione e decesso pari al 70 %, non aveva superato l’asticella della significatività statistica, sempre nei confronti del placebo.


Il discorso relativo al raggiungimento o meno della significatività statistica ha ovviamente un suo perché. Sono diminuiti i ricoveri e i decessi grazie soprattutto alle campagne vaccinali realizzate nei Paesi occidentali e ad una minore virulenza del SARS-CoV-2, con varianti molto più trasmissibili ma meno patogenetiche (Omicron & sotto-varianti), per cui viene a mancare una solida “base” sufficiente di persone per condurre test clinici che mostrino una richiesta significatività statistica.


Come spesso avviene, anche quella che, sia pure parzialmente può rappresentare una battuta d’arresto, riesce spesso a trasformarsi in una opportunità (anche per altri). E così, la ricerca, si sta concentrando sullo sviluppo di antivirali anti Covid, che non solo siano efficaci nel ridurre ospedalizzazione e decessi, ma che possano anche minimizzare il rischio di non alleviare la sintomatologia. Un percorso già visto, del resto, per lo sviluppo di antivirali efficaci nei confronti della comune influenza che notoriamente non causa un così alto numero di casi gravi.

Non a caso, poche settimane fa, si è scritto parecchio a proposito dell’antivirale VV116 studiato dalla cinese Junshi Biosciences, e “per pura coincidenza” del confronto versus Paxlovid  che riportava i dati della Fase III del Trial per la registrazione di tale antivirale per l’indicazione del trattamento precoce della COVID-19 da lieve a moderata. (https://www.globenewswire.com/news-release/2022/05/25/2449880/0/en/VV116-Versus-PAXLOVID-Phase-III-Registrational-Trial-for-Early-Treatment-of-Mild-to-Moderate-COVID-19-in-High-Risk-Patients-Reaches-Primary-Endpoint.html).


Anche questa volta mi sento di dire che ne riparleremo a breve…;)


mercoledì 22 giugno 2022

REPETITA JUVANT: MUTAZIONI E VARIANTI, VANTAGGIO O SVANTAGGIO E PER CHI?


Iniziamo con il chiarire che cosa sia una variante. Quando un virus, in un dato momento, si rinviene con una forma diversa, rispetto a quella dominante sino a quel momento, allora possiamo parlare di variante.


La considerazione successiva è capire come questo possa avvenire. Un virus, può essere descritto, come un ammasso di proteine al cui interno è contenuto del materiale genetico che porta con se l’informazione necessaria per produrre altri ammassi proteici ed inglobare copie dello stesso materiale genetico al loro interno. Più semplicemente il virus ha necessità di riprodursi, ma non potendolo fare da solo, per replicarsi, ha la necessità assoluta di infettare più cellule possibili per creare, attraverso determinati meccanismi, altri ammassi proteici e molecole di materiale genetico, che siano copie del materiale genetico originale. E’ esattamente in questo frangente che possono manifestarsi delle mutazioni in grado di cambiare la struttura proteica che compone l’involucro del virus. 


A questo punto, sarebbe lecito domandarsi se ogni mutazione sia in grado di generare una variante. La risposta, semplice, semplice è NO! Innanzitutto perché le mutazioni non sono tutte uguali e soprattutto, molto spesso risultano essere deleterie per il virus stesso dal momento che qualsiasi cambiamento della struttura proteica può generare una variazione della sua funzione in senso negativo, e quindi creare danni per il virus stesso ( impropriamente Mutazioni “Deleterie”). Ovviamente, potrebbero verificarsi anche Mutazioni impropriamente “Neutre”, in grado di NON impattare in alcun modo sull’attività del virus e last but not least, anche mutazioni capaci di conferire un vantaggio al virus, come ad esempio, una maggiore facilità di penetrare nelle cellule dell’ospite (Omicron ne è un esempio). Potremmo quindi scrivere impropriamente, in questo caso, di Mutazioni “Vantaggiose”. Ma su questo aspetto e sul rapporto tra vaccini e varianti, ragioneremo ancora più in dettaglio più tardi perché non è così semplice come appare descrivere le variabili di tale evenienza.


Per ora ci basti sapere che i vaccini sono stati studiati per consentire al nostro sistema immunitario di riconoscere una specifica proteina del virus, la proteina Spike, dal momento che, per tutta una serie di motivi che è inutile trattare in questo post, è direttamente coinvolta nel meccanismo con cui il virus penetra nelle nostre cellule. Fare in modo che gli anticorpi riconoscano la proteina Spike, produce quindi due effetti, (i) rendere il virus riconoscibile anche ad altre cellule del nostro sistema immunitario, per poterlo attaccare ed eliminare e (ii) limitare il più possibile, di conseguenza, il virus nella sua capacità di farsi strada tra le cellule dell’ospite e quindi di far progredire l’infezione e la malattia.

Risulta quindi evidente che, quello che si auspichi non avvenga è il manifestarsi di mutazioni capaci di cambiare in modo sufficiente la proteina Spike facendo si che questa non possa più essere riconosciuta. Tradotto, che il virus risulti capace di eludere COMPLETAMENTE i vaccini oggi in uso.


La probabilità che questo avvenga è molto bassa e molto rara. Perché?…erga omnes (i) la natura delle mutazioni è un evento casuale, (ii) non esiste solo la proteina Spike in un virus, per cui sono molte le proteine che possono mutare, (iii) le mutazioni che quindi devono preoccuparci, sono solo quelle a carico della Spike, (iv) e di questo gruppo di mutazioni solo quelle in grado di nasconderla ai nostri anticorpi, (v) fortunatamente non abbiamo a disposizione un solo tipo di anticorpi dal momento che il nostro organismo, sia grazie all’immunità naturale ( aver contratto l’infezione ) sia grazie a quella indotta ( il vaccino ) - https://ilgeneegoista.blogspot.com/2022/04/hybrid-immunity.html - può produrre moltissime e diverse popolazioni di anticorpi tutte in grado di riconoscere la proteina Spike, ma in punti diversi. In gergo, si definiscono anticorpi policlonali.

Per questi motivo, risulta evidente che la proteina Spike, dovrebbe essere soggettata a tantissime mutazioni, per poter eludere tutti questi anticorpi. Tutto quanto sopra esposto, nel suo insieme, rende conto del perché non sia altissima la probabilità che emerga una variante in grado di eludere in modo significativo il vaccino.

 

Ciò detto, pur trovandoci di fronte ad una bassa probabilità che questo evento avvenga, dobbiamo tenere a mente che gli eventi sono davvero tanti. Difatti le mutazioni si manifestano ogni volta in cui il virus replica, per cui, ad esempio, soltanto nell’infezione di un solo soggetto avremo una miriade di eventi replicativi. Diventa quindi quasi banale considerare che quanto più il virus è libero di circolare tanto più aumenta la probabilità che si origini una variante capace di eludere il nostro sistema immunitario.        


E se vogliamo, come nel titolo, mettere i puntini sulle i, cerchiamo di capire se quando si parla di mutazioni, queste si correlino a vantaggi o svantaggi e soprattutto a favore di chi. La maggior parte delle mutazioni che si hanno sulla Spike è più probabile che siano dannose, o più terra terra NON “migliori” piuttosto che vantaggiose PER IL VIRUS e questo perché basta che cambi un aminoacido nella sequenza di quelli che compongono la proteina spike per mandare a carte quarantotto tutto l’ambaradan con conseguente perdita della funzione di quella proteina e bye bye vantaggio. Tanto è vero che varianti di questo tipo, remerebbero contro il virus perché riuscirebbe a riprodursi di meno.

Ma attention please! Questo non vuol dire che non possano riscontrarsi mutazioni capaci di migliorare la funzione o la prestazione della proteina Spike, ma solamente e semplicemente che ciò non rappresenta la regola, trattandosi di un evento non molto comune. Nel caso però ciò avvenisse sarebbe lecito pensare che una mutazione, dalla quale possa emergere una variante che giochi a favore del virus, (definiamola impropriamente una variante “migliore”) possa correlarsi automaticamente ad una maggiore virulenza, aggressività o patogenicità. Fortunatamente non è così! In ambito evoluzionistico, una mutazione impropriamente “migliore” non rende più efficaci a fare un qualcosa (per esempio causare una maggiore virulenza) ma piuttosto più adatti a farlo (per esempio aumentando la capacità di trasmissione).Tanto è vero che una malattia lieve consente di sfruttare per più tempo l'ospite, che diventa veicolo attivo di diffusione di nuove particelle virali non solo nella fase asintomatica ma anche nella fase sintomatica. Contrariamente, un ospite allettato non è "utile" per la trasmissione virale mentre un ospite che ha solo tosse o naso che cola ma può muoversi e contagiare altri è utilissimo. Ovviamente sempre per il virus. Per paradosso (ma non tanto), in un mondo ideale in cui i vaccini sono in grado di proteggere dalla malattia in forma grave tentando, sia pur remando parecchio e spesso a vuoto, anche di limitare o circoscrivere il più possibile la circolazione del virus, potrebbero essere favorite quelle mutazioni che, pur mostrando maggiori difficoltà nel legame tra la Spike ed il recettore cellulare dell’ospite (ACE), e quindi capaci di causare una minore attività patogenetica, riescano invece ad eludere il vaccino.


Ricordo, per chi si fosse perso volontariamente o meno qualche passaggio, che l’obiettivo per tutti gli organismi portanti informazioni genetiche è quello di riuscire a riprodurle il più possibile quindi qualunque mutazione che permetta al virus di tramandare di più la sua informazione genetica sarebbe vantaggiosa (sempre PER IL VIRUS), ma questa mutazione non renderebbe necessariamente più efficace la proteina Spike, anzi paradossalmente potrebbe essere l’opposto (cosa per noi estremamente favorevole) perché una variante del virus in grado di diffondersi anche di più grazie alla capacità di eludere il vaccino, ma che sia conseguentemente anche meno virulenta poiché meno capace di esprime un buon legame Spike / ACE sarebbe una variante non proprio da buttare nel cestino dello spam (e non a caso, è ciò che sta avvenendo).                                                                                                                                                                                                                                                                             


In ogni caso, ben anche la proteina spike del virus mutasse, diventando più contagiosa, non potremmo parlare di una mutazione radicale, poiché le mutazioni posso manifestarsi solo gradualmente e probabilmente essere anche MENO dannose per il virus, a patto che prima siano avvenute diverse modifiche, gradualmente ed in sequenza temporale (A tal proposito mi viene in mente come nell’ambito del monitoraggio attuale delle VOC si sia passati dalla B.1.1.529 o Omicron alle “sotto varianti” BA.2, BA.3, BA.4, BA.5).


lunedì 20 giugno 2022

KAREN WETTERHAHN, CHI ERA COSTEI?…ED IL MESE DI GIUGNO NON E’ CASUALE.


Laureata in chimica, oggi avrebbe 73 anni. Iniziò la sua carriera a Dartmouth nel 1976, dove fece notizia essendo stata la prima donna assunta in una posizione di rilievo all’interno del dipartimento di chimica. La ricerca che la vide impegnata si focalizzò sulla comprensione di come il cromo, un metallo pesante, potesse danneggiare il DNA e causare il cancro. Nel 1995, ricevette dal National Institute of Environmental Health Sciences il più grande finanziamento della storia del Dartmouth College, pari a 7 milioni di dollari, per dare vita a un programma di ricerca sugli effetti dei metalli pesanti (il Dartmouth Toxic Metals Superfund Research Program). Probabilmente questo gravoso impegno le sarebbe valso la medaglia Priestley, la più alta onorificenza assegnata dall'American Chemical Society.

Nel corso della sua vita, occupò anche ruoli amministrativi, diventando preside della facoltà di arti e scienze presso il  Dartmouth College, ma amava troppo il proprio lavoro e la ricerca, per poter rinunciare al suo laboratorio per ricoprire qualsiasi altra impegnativa posizione. La Wetterhahn era talentuosa e ambiziosa. Era anche gentile e generosa con i suoi colleghi e amici e morì nel 1997 per avvelenamento da dimetilmercurio dopo esservi stata accidentalmente esposta nel suo laboratorio.

In questi 25 anni, la sua influenza non è mai svanita ed anzi, sono emersi elementi capaci di far apprezzare sempre di più ciò che ci lasciò in eredità. I suoi contributi per comprendere la tossicità del cromo o i suoi sforzi per aiutare le donne ad avere successo in ambito accademico e scientifico, furono evidenti fin dall’inizio del suo operato. Altri, come i cambiamenti da applicarsi alle norme di sicurezza all’interno di ciascun laboratorio, sono emersi solo dopo la sua morte e tutto questo contribuisce a definirla come una pioniera nel proprio campo e spiega il motivo per cui la sua influenza continuerà a farsi sentire nei modi più disparati negli anni a venire.


Come se disponessimo di una macchina del tempo ritorniamo al 14 agosto del 1996. Karen Wetterhahn, sino a quel momento, aveva dedicato la gran parte del proprio lavoro allo studio del metallo pesante Cromo e ai suoi effetti tossici sulle persone. Questa correlazione non era casuale. Ricordate la battaglia legale a sfondo ambientale guidata dall'attivista Erin Brockovich in California nel 1993, da cui fu tratto il bellissimo film con Julia Roberts? Bene, sappiate che a quel tempo, gli scienziati sapevano che il cromo esavalente danneggiava il DNA, ma ignoravano le modalità per cui ciò potesse accadere. Ed era appunto per questo motivo che la Wetterhahn aveva in programma di eseguire alcuni esperimenti sul mercurio e per cui si mise al lavoro, a capo del proprio gruppo di ricerca, armeggiando sotto una cappa nel laboratorio ove era solita studiare. Qualcuno si potrebbe chiedere che cosa ci azzecca il mercurio, con lo studio sul cromo e relativi effetti. Bene, questa è la motivazione. La Wetterhahn stava collaborando con i colleghi dell'Università di Harvard e del Massachusetts Institute of Technology per studiare le proteine (circa 3.000), contenenti lo zinco (un altro metallo pesante come il cromo), in grado di riparare i danni causati al DNA, partendo dal presupposto che la comprensione dei meccanismi di riparazione del DNA avrebbe potuto fornire ottime informazioni su come potesse avvenire una simile tipologia di danno. E per questo motivo, pensò che il legame tra zinco e proteine, sarebbe stato indagato grazie all’impiego della spettroscopia RMN (Risonanza Magnetica Nucleare), una tecnica analitica usata per determinare la struttura molecolare e la composizione chimica di un determinato campione.


Purtroppo lo zinco non è facilmente visibile alla RMN, per cui si decise di impiegare il mercurio, il cui isotopo ¹⁹⁹ Hg può essere più facilmente indagato con la RMN. Ovviamente, l’apparecchiatura avrebbe dovuto essere adeguatamente “calibrata” per lo scopo. Inizialmente Karen Wetterhahn ed il suo gruppo di ricerca, provarono con il cloruro di mercurio, ma essendo i risultati insoddisfacenti, optarono per il più conosciuto ma anche notoriamente tossico dimetilmercurio. Infatti, questo composto organico del mercurio è facilmente assorbito dall'organismo, anche attraverso la pelle, e nell’organismo si converte in metilmercurio che legandosi a proteine e peptidi consente a questo metallo pesante di superare la barriera ematoencefalica. Una volta raggiunto il cervello va ad interferire con i processi che proteggono i neuroni dall'ossidazione e stimola una risposta immunitaria in grado di attaccare quelle proteine che sono fondamentali per il normale funzionamento cerebrale.


Fu la stessa ricercatrice che, da sola, quel giorno infausto decise di maneggiare una provetta sigillata con all’interno un liquido costituito al 98% da dimetilmercurio; ma alcune gocce caddero dalla pipetta sul dorso della mano, rigorosamente protetta con un guanto in lattice che all’epoca costituiva il materiale standard per i guanti da laboratorio. Di ciò abbiamo pressoché certezza dal momento che fu trovato nel laboratorio un documento simile ad una scheda tecnica con le raccomandazioni per il rispetto delle misure di sicurezza (https://s3.documentcloud.org/documents/22015868/msds-from-wetterhahns-lab.pdf).

Nessuna delle persone successivamente intervistate ricordò che la Wetterhahn avesse mai rivelato l’accaduto e a ben pensarci, non ne avrebbe avuto nemmeno il motivo dal momento che in fin dei conti lei aveva indossato quelli che si pensava fossero i dispositivi di protezione individuali più appropriati per trattare un elemento che certamente si sapeva essere tossico, ma non così devastante e mortale. Trascorsero ben 5 mesi prima che le conseguenze di quell’incidente diventassero evidenti, con problemi allo stomaco, di deambulazione e di normale capacità nel parlare. Solo a quel punto si decise di consultare un medico, ma nel giro di poche settimane entrò in coma e l’8 Giugno del 1997 spirò. Aveva 48 anni.


Dal punto di vista chimico-fisico, il dimetilmercurio è un composto volatile, pesante, con una densità circa tre volte maggiore dell’acqua, non è polare e quindi capace di sviluppare una bassa tensione superficiale. Probabilmente, proprio queste proprietà avrebbero facilitato la fuoriuscita involontaria di una o più gocce dalla pipetta, rendendo così evidente al mondo scientifico quanto fosse pericoloso e mortale oltre a quanto fossero inadeguate le misure di sicurezza consigliate per il suo impiego in laboratorio.

"Sapevamo che il [dimetilmercurio] era tossico", si può leggere in una intervista a Thomas V. O'Halloran, professore di chimica alla Michigan State University, ma "Non avevamo idea di quanto potesse essere così incredibilmente tossico."

Ed occorre anche sottolineare quanto potesse essere pericoloso (e lo è tuttora) lavorare sotto una cappa in un laboratorio, soprattutto quando si ha anche a che fare con i metalli pesanti. Ovviamente Karen Wetterhahn, di questo, ne era ben consapevole.


Sembra fuori da ogni logica, ma commemorare una figura così importante e significativa, per rendere noto del perché ed in che modo un composto come il dimetilmercurio sia così tossico e mortale, a mio avviso, ha del paradossale.

Nessuno sa esattamente quante gocce di dimetilmercurio siano finite sul guanto della Wetterhahn, o quanto il suo organismo ne abbia assorbito. In questo articolo del N. Engl. J. Med. (1998, DOI: 10.1056NEJM199806043382305) si legge che le furono rilevati, dopo un prelievo ematico, 4.000 μg/L di mercurio e dobbiamo considerare che normalmente i livelli di mercurio nel sangue sono compresi in un range tra 1 e 8 μg/L in persone non sottoposte a rischio professionale, mentre i tossicologi considerano la dose letale pari a 200 μg/L .

Christy Bridges esperta in avvelenamenti da mercurio, professoressa alla School of Medicine della Mercer University, dopo aver esaminato su richiesta di C&EN i rapporti sull'incidente e sulla sintomatologia accusata dalla Wetterhahn (poiché i composti organici del mercurio si accumulano nei capelli e nelle unghie, i medici in ospedale raccolsero anche un campione dei capelli che ovviamente mostrò un elevato aumento dei livelli) ha dichiarato: ” Certamente l'estrema tossicità relativa al dimetilmercurio è stata una sorpresa per tutti. Esaminando i fatti di quanto accaduto non vi è alcun motivo per poter pensare a qualcosa che non sia imputabile ad un incidente di laboratorio,  ma resta tuttavia difficile da comprendere come solamente poche gocce di un qualsiasi composto, possano aver causato una sintomatologia come quella accusata dalla nota ricercatrice” - con così poche informazioni, non è facile contestualizzare i danni organici che si manifestarono - “Purtroppo, non abbiamo dati sufficientemente esaustivi sulla tossicità del dimetilmercurio per poter comprendere appieno come questo influisca sul corpo umano; tale composto è così pericoloso che studi futuri sono improbabili, sia pur condotti sugli animali”.

Ed infatti ancora venticinque anni dopo, gli esperti concordano sul fatto che è difficile spiegare quanto accadde a Karen Wetterhahn e che ancora poco si conosce circa gli effetti dell'avvelenamento da dimetilmercurio. La letteratura scientifica riporta solo quattro decessi e la sua morte si annovera tra questi (Int. Arch. Arbeitsmed. 1974, DOI: 10.1007/BF00538936 ; Chem. Br., luglio 1989, pagina 702). 


La Sua eredità


Con la sua morte Karen Wetterhahn ci ha lasciato molto in eredità, prima tra tutti la consapevolezza provata di quanto possano essere tossiche alcune sostanze chimiche e quanto sia importante disporre di sempre più chiare ed aggiornate normative ed informazioni per poter lavorare in laboratorio in piena sicurezza, disponendo anche di adeguati dispositivi di protezione.

E questo nonostante la legge federale richiedesse già a produttori e distributori di fornire quelle che sono definite schede che riportano, soprattutto anche per le sostanze ritenute pericolose, le proprietà di base delle sostanze chimiche, i loro pericoli e le precauzioni da adottare durante la manipolazione. 

Secondo quanto emerso dopo le indagini, la Wetterhahn disponeva di tre informative circa il trattamento del dimetilmercurio. Una consigliava di indossare guanti di gomma, un’altra di indossare "guanti adeguati resistenti alle sostanze chimiche" mentre la terza di indossare guanti in neoprene. (Appl. Occup. Environ. Hyg. 2001, DOI: 10.1080/104732201460389).

Come sappiamo, al momento dell’incidente, la ricercatrice indossava guanti in lattice. Per questo motivo Michael Blayney, ora direttore esecutivo della ricerca sulla sicurezza presso la Northwestern University, ha incaricato un laboratorio indipendente di testare i diversi tipi di guanti trovati nel laboratorio di Karen per scoprire quanto velocemente il dimetilmercurio fosse in grado di penetrarli.

Il risultato si è rivelato allarmante (https://s3.documentcloud.org/documents/22015867/intertek-test-results-wetterhahn.pdf), il dimetilmercurio era capace di penetrare attraverso i guanti molto più velocemente di quanto chiunque si sarebbe mai aspettato: 15 - 20 sec per i guanti in lattice e circa 10 minuti per quelli in neoprene. L'unico dispositivo di protezione affidabile che Blayney e Collaboratori sono stati in grado di identificare era un guanto in neoprene indossato sopra un guanto di plastica laminata. Da qui l’invito espresso a tutta la comunità scientifica per adoperarsi al meglio per raggiungere standard di sicurezza sempre migliori. Per “calibrare” l’apparecchiatura atta ad effettuare una spettroscopia RMN (Risonanza Magnetica Nucleare), T. V. O’Halloran della Michigan State University ha successivamente pubblicato un vademecum con le nuove procedure imposte per adempiere a questa necessità, in cui, in luogo del dimetilmercurio, si suggerisce l’impiego del perclorato di mercurio (https://sites.northwestern.edu/ohalloran/199hg-nmr-standards/). Il tutto confermato anche dal bollettino dell’OSHA che si può leggere a questo link: (https://www.osha.gov/publications/hib19980309).


Anche la modalità con cui seguiva rigorosamente il proprio metodo scientifico ci è stata lasciata in eredità, ovvero la risoluzione dei problemi scientifici grazie ad una attenta e rigorosa valutazione dei dati disponibili, interpretati analizzandoli da ogni prospettiva possibile. William A. Suk, allora direttore del National Institute of Environmental Health Sciences (NIEHS) del National Institutes of Health scrisse di lei: “Karen era una delle migliori nel campo dello studio tossicologico dei metalli pesanti, ma diventava insuperabile quando si trattava di cromo”.

Ed infatti fu in grado di sviluppare quello che è noto come il modello di assorbimento-riduzione del cromo e relativa tossicità. Ricordo che il Cromo è un elemento che può esistere in molti stati di ossidazione (da 0 a + 6 o esavalente); con il numero di ossidazione +2 si comporta come metallo, con il numero di ossidazione +3 si comporta da metallo, ma anche da non metallo, formando un ossido anfotero, mentre con il numero di ossidazione +6 si comporta da non metallo e forma di conseguenza un ossido acido (o anidride).

Karen Wetterhahn ne studiò appunto sia la tossicità che la cancerogenicità, scoprendo i processi metabolici ed i relativi meccanismi coinvolti nei vari passaggi di riduzione ossidativa del Cromo. Il primo meccanismo include radicali idrossilici altamente reattivi e altri radicali  prodotti dalla riduzione del cromo +6 a cromo +3. Il secondo processo include il legame diretto del cromo +5 (con il +4 molto raro), prodotto dalla riduzione nella cellula, e dei composti di cromo +4 al DNA. L’ultimo meccanismo ha attribuito la genotossicità al legame con il DNA del prodotto finale della riduzione a cromo +3. 

(https://journals.sagepub.com/doi/10.3109/10915818909009118 ).


L’ultimo aspetto lasciatoci in eredità, estremante attuale ed importante, riguarda i diritti delle donne impegnate nel campo scientifico. "Renderò il percorso per le donne che verranno dopo di me molto più agevole rispetto a quello delle donne che sono venute prima" dichiarò un giorno Karen. Probabilmente a causa delle esperienze che visse in quanto donna in un campo che era, ed è tutt’ora, dominato dagli uomini (https://cen.acs.org/careers/diversity/struggle-keep-women-academia/97/i19), all’inizio degli anni ’90 avviò un programma di tutoraggio con esperienze dirette da compiersi nel campo della ricerca noto come The Women in Science Project (WISP) of Dartmouth (https://students.dartmouth.edu/wisp/).


Insomma, Karen Wetterhahn fu e resta tutt’ora una fonte imprescindibile di ispirazione.


giovedì 16 giugno 2022

TRA CEFFONI E RICERCA "OLUMIANT" DI ELI LILLY DIVENTA IL PRIMO TRATTAMENTO FARMACOLOGICO PER L’ALOPECIA AREATA APPROVATO DALL’FDA


Probabilmente nei salotti televisivi, sui quotidiani o attraverso i social maggiormente utilizzati, non si parlerebbe così tanto, ultimamente, di alopecia se Will Smith, la notte degli Oscar, non si fosse lasciato andare ad un impeto d’ira sferrando un sonoro schiaffone in difesa della moglie che fece il giro del mondo in meno di un nano-secondo. Una malattia autoimmune che fa sì che l’organismo sia in grado di danneggiare i propri follicoli piliferi, provocando la caduta dei capelli.

Tuttavia, l’impegno di Eli Lilly nel campo della ricerca farmacologica nel settore immunologico, è sempre stato costante nel tempo, ben prima comunque dell’accaduto, tanto da risultare determinante al fine di ottenere un’altra approvazione da parte di FDA per la terze indicazione concessa al proprio farmaco Olumiant (https://www.fiercepharma.com/pharma/eli-lilly-puts-skin-immunology-game-eyeing-approvals-year-and-next-alopecia-eczema-and-more), un inibitore della Janus chinasi (JAK). Si tratta di un’indicazione importante dal momento che, per l’appunto, è la prima per il trattamento dell'alopecia areata.


Eh…già, ben 3 indicazioni per questo medicinale! Nel 2018 il Baricitinib, questo il nome molecolare del farmaco, ottenne l’approvazione per il trattamento dell’artrite reumatoide in fase attiva da moderata a grave; più recentemente gli venne riconosciuta anche una nuova indicazione per il trattamento della COVID-19 nei pazienti adulti ricoverati che richiedono ossigeno supplementare, ventilazione meccanica non invasiva o invasiva o ossigenazione extracorporea a membrana (Ecmo). (https://www.fiercepharma.com/pharma/fda-converts-eua-lillys-olumiant-full-nod-hospitalized-covid-19-patients). Verso la fine del 2021, Eli Lilly presentò l’istanza per ottenere anche l’indicazione per il trattamento dell’alopecia grave, cosa che è avvenuta questo mese (https://www.fda.gov/news-events/press-announcements/fda-approves-first-systemic-treatment-alopecia-areata), nonostante la recente richiesta di nuove informazioni e verifiche da parte dell’FDA circa la sicurezza relativa alla possibile correlazione tra l’impiego degli inibitori della Janus chinasi (JAK) di Pfizer, AbbVie e Lilly ed eventuali gravi effetti collaterali cardiaci e cancerogeni ( https://www.fiercepharma.com/pharma/pfizer-abbvie-lilly-arthritis-drugs-hit-much-dreaded-fda-heart-safety-cancer-warnings).


In effetti, a parte una opzione terapeutica basata sull’impiego off-label di corticosteroidi somministrati con iniezioni a livello del cuoio capelluto, l’attuale “trattamento” dell’alopecia è quasi totalmente solo cosmetico, con un “bonus” rappresentato dall’utilizzo di parrucche e ciglia finte

Olumiant al contrario inibisce l’attività enzimatica di JAK1 e JAK2 rallentando se non bloccando l’intero processo infiammatorio. I risultati degli studi condotti hanno dimostrato come i pazienti che avevano perso almeno il 50% dei capelli da più di sei mesi raggiunsero almeno l'80% del rinfoltimento del cuoio capelluto entro la trentaseiesima settimana di trattamento.


domenica 12 giugno 2022

SE LE MANI CON CUI SI DOVREBBE SCRIVERE SONO IN ALTRE FACCENDE AFFACCENDATE


Mah!!! Più leggo è più mi pare evidente che per molti l’unico sesso “buono” da prendersi in considerazione sia quello che si pratica da solo, senza ovviamente rinunciare ad un resistente guanto in nitrile per precauzione, per poi scoprire di aver però solo fatto un volo con la fantasia (comunque, a meno che non si ripercuotano su un vasto pubblico, non sta al sottoscritto giudicare gli “sfizi” altrui anche se qui mi pare di essere in una condizione borderline). Prima domanda: ma di cosa si vuole parlare esattamente? In fondo a destra del paginone proposto dal post, io leggo: “non voler approfondire la ricerca del legame tra i vaccini e le potenziali REAZIONI AVVERSE”. Seconda domanda: perché reazioni avverse e non effetti collaterali o eventi avversi? (I report mondiali di farmaco vigilanza fanno riferimento, per la maggior parte, a questi ultimi).
Senza addentrarmi nella definizione che dovrebbe essere, almeno giornalisticamente parlando, adeguatamente diffusa di effetto placebo e nocebo e che qui, chi vorrà, potrà approfondire (https://www.nbst.it/1252-reazioni-avverse-vaccini-effetto...) e senza negare che inevitabilmente, come per qualunque farmaco possano manifestarsi anche per i vaccini, problematiche post somministrazione, ma davvero davvero si può far credere che tra effetti collaterali, eventi avversi e reazioni avverse non vi siano differenze? 

Perché nel caso a qualcuno non fosse chiaro, e non sapesse nulla di farmacovigilanza, e pare che tra i giornalisti sia cosa piuttosto diffusa, per eventi avversi si intende “qualsiasi fenomeno clinico spiacevole che si presenta durante un trattamento con un farmaco, ma che NON abbia necessariamente un rapporto di causalità (o di relazione) con il trattamento stesso (il punto fondamentale è la coincidenza nel tempo senza alcun sospetto di una relazione causale) mentre per effetto collaterale: “qualsiasi effetto non intenzionale di un farmaco che insorga alle dosi normalmente impiegate nell'uomo e che sia connesso alle proprietà del farmaco (come può essere la sonnolenza da antistaminico)”. Gli elementi essenziali in questa definizione sono la natura farmacologica degli effetti, che il fenomeno non è intenzionale e che non vi sia palese sovra-dosaggio. Al contrario, per Reazione avversa, si considera “una risposta a un farmaco che sia nociva e non intenzionale e che avvenga alle dosi normalmente usate nell'uomo. In questa definizione sono importanti perciò i fattori individuali. Si distingue poi anche la reazione avversa inaspettata: una reazione avversa, la cui natura o severità non è in accordo con quanto riportato sul foglietto illustrativo e con l'autorizzazione rilasciata per la sua commercializzazione, o inaspettata in base alle caratteristiche del farmaco”. L'elemento essenziale in questa definizione è il fatto che l'evento è IGNOTO. Le reazioni avverse da farmaci, sostanzialmente, sono legate al dosaggio, alle possibili allergie ed alla idiosincrasia (ipersensibilità a sostanze di vario tipo che emerge in seguito al primo contatto con esse).
Chiarito quindi che scrivere genericamente di problematiche post vaccino o di effetti collaterali, eventi avversi, reazioni avverse non sia esattamente la stessa cosa e che un giornalista dovrebbe contribuire a chiarire anziché dedicarsi alla cucina per preparare “minestroni”, in questo commento utilizzo come unità di misura il termine “evento avverso”, dal momento che è quello, non credo a caso, utilizzato maggiormente nei vari report di farmaco-vigilanza. Non dovrebbe più essere consentito confondere volutamente tra eventi da osservare e certi e rilevanti effetti avversi: https://www.aifa.gov.it/domande-e-risposte... e https://www.icsmaugeri.it/pato.../effetti-avversi-da-farmaci. 
Bene, una pietra tombale su ciò che può avvenire dopo la somministrazione del vaccino a mRNA di Pfizer, può essere messa leggendo questo report (https://phmpt.org/.../5.3.6-postmarketing-experience.pdf...). Questo report ( ma ne esistono anche per i vaccini a vettore adenovirale, inclusi anche quelli proteici come il Novavax) è molto tecnico e per la sua comprensione necessità dì conoscenze approfondite di medicina e di farmaco vigilanza. 
Suggerimento personale: chi non ha le conoscenze per comprendere quanto riportato non dovrebbe andare oltre le conclusioni, anziché scrivere articoli su un settimanale e invece no, gli abituali, dannosi diffusori dì falsità hanno già i motori che girano a pieno regime nello spargere come se fosse spam l’elenco degli eventi avversi, facendo intendere che non si abbia conoscenza di quanto emerso come prova provata dalla più grande ed approfondita farmaco vigilanza che un farmaco abbia mai conosciuto al mondo. Perché, piaccia o meno, questo è un dato di fatto acclarato.
E nel caso io mi fossi espresso in maniera poco chiara dando ad intendere di non aver ben compreso il “polverone” sollevato dall’articolo, derubricando tutto a “fuffa” cerco di spiegarmi meglio, setacciando la letteratura, la clinica e l’immunologia e facendo ri-depositare la povere a terra e senza nasconderla, come qualcuno pare suggerire si sia intenzionati a fare, sotto il tappeto, senza necessità di ricorrere a questa o quella terminologia. E vediamo da dove nasce tutto questo can-can mediatico, semplicemente mal proposto.
“C’era una volta”… un articolo, mi pare pubblicato su Wired a Maggio dello scorso anno, in cui si intitolava “Covid-19 è una malattia più vascolare che respiratoria?" Che tradotto sottintendeva come il semplice legame tra la proteina spike e i recettori Ace2 sulle cellule dei vasi sanguigni fosse sufficiente a indurre un danno al sistema vascolare, trombi inclusi.
E più velocemente di un razzo missile, con circuiti da mille valvole che sprinta e va sono stati tirati in ballo i vaccini, profilassi contro il SARS-CoV-2. Perché? Si da il caso che entrambi i vaccini (quelli a mRNA e a vettore adenovirale) sono stati “progettati” per produrre cellule in grado di esprimere sulla loro superficie la proteina spike virale. Ergo la affatto lapalissiana conclusione che quanto si manifesta dopo la somministrazione del vaccino, sarebbe da ricondursi a questo fatto.
Ne siete convinti? Personalmente non ci scommetterei; il tenore è pressapoco pari alla opinione che questi vaccini siano capaci di altera il DNA umano, ma ciascuno se la canta e se la suona come preferisce.
Per cui, balzando da una opinione a dati ripetuti e ripetibili nonché verificabili, quello che si sa è che le cellule in grado di esprimere sulla loro superficie la proteina spike virale di cui sopra, rimangono nel luogo di inoculazione visto che i vaccini a mRNA non hanno l’abitudine di andarsene a spasso per il nostro organismo (https://www.science.org/.../mrna-vaccines-what-happens). Per i più dubbiosi, consiglio la lettura.
E poiché l’inoculazione dei vaccini a vettore adenovirale avviene nel muscolo deltoide, notoriamente non particolarmente vascolarizzato, quanto detto prima dovrebbe valere anche per questa tipologia di vaccini. Aggiungiamoci poi che la quota di vaccino che non raggiunge la cellula, non si riversa nel circolo ematico ma bensì nel nostro sistema linfatico.

Ciò detto, il cerchio potrebbe chiudersi con le seguenti, ulteriori considerazioni: (i) tutti i vaccini di cui disponiamo, Novavax incluso, esprimono la proteina Spike virale nella conformazione pre link, ovvero NON in quella capace di legarsi al recettore ACE2,(ii) posta l’eventualità che una minima quantità di vaccino raggiunga il circolo ematico, ciò non implicherebbe che la Spike andrebbe in circolo ma molto più semplicemente che sarebbe espressa dalle cellule che compongono l’endotelio vascolare nel momento in cui l’assorbissero.
Per cui, per spiegare molti dei sintomi post vaccino riportati, occorre prendere in considerazione (cautelativamente ricorro ad un “probabilmente”) la reazione immune indotta dal vaccino. Ed in effetti, leggendo quest’articolo del The New Englanf Journal (https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2104840) la spesso citata trombosi del seno venoso cerebrale pare essere provocata da anticorpi anti PF4 indotti dal vaccino il che indica come, sia pure molto raramente, sia una inadeguata e non conforme risposta immunitaria a creare problemi; ma del resto è sempre la stessa solfa che si riscontra per ogni evento avverso da vaccino. Sempre per i più curiosi, e varrebbe anche per i giornalisti, non sarebbe male leggere questo post molto dettagliato di Derek Lowe (https://blogs.sciencemag.org/.../04/spike-protein-behavior).
WARNING: “Long COVID" è il termine che viene utilizzato comunemente per indicare l'insieme dei disturbi e manifestazioni cliniche tipiche della Covid che permangono dopo la guarigione dall'infezione da SARS-CoV-2 e NON certamente gli eventi avversi del vaccino o come chiunque si trastulli nel definirli. Per cui sarebbe opportuno non aggiungere confusione a confusione e ricordarsi che le parole, come sosteneva una mio Professore, sono "cose" e quindi hanno il loro peso. Del resto, parlare di confusione mi sembra il minimo sindacale dal momento che ci sarebbe da farsi venire la pelle d'oca nel leggere virgolettato che un immunologo quale W. Murphy dichiari che "un trattamento precoce può aiutare a prevenire problemi a lungo termine potrebbe essere fondamentale per progettare SIERI....". Ma davvero siamo ancora a livello di definire bislaccamente un vaccino come siero, cavallo di battaglia di consumati no-vax? No, fortunatamente no!!! E a non voler essere mal pensanti, derubrichiamo il tutto come un errore "non voluto" di chi ha tradotto il testo, visto che la versione originale è la seguente: "understanding the cause of postvaccine symptoms—and whether early treatment can help prevent long-term problems—could be crucial for designing even safer and more effective VACCINES, Murphy says, as well as potentially providing clues to the biology of Long Covid". 

Certo, un minimo di dubbio sulle conoscenze scientifiche di chi fa informazione giornalistica, non può non venire. Comunque, a parte questa palese "svista", criticatemi pure, ci mancherebbe, ma il problema non è che questa sindrome esista, quanto il non conoscerne ancora a sufficienza la vera incidenza. Ma torniamo sempre al punto d’origine. Si contano a dozzine i media che, velatamente o meno, insinuano che se ti prendi la Covid poi arriva inevitabile la Long Covid. Cosa fortunatamente al di fuori della realtà. E questo perchè,sf##a vuole che prolifino articoli di quotidiani o settimanali scritti con i piedi, perché, per dirla come Derek Lowe, " Un grosso problema con queste storie è che pochissimi capiscono come funziona un trial clinico, o come funziona la statistica per interpretarlo. Così ogni sorta di dati inaffidabili vengono presentati come se fossero completamente solidi e indubitabili, e sono "risultati" da "trial" miseramente controllati, di potenza statistica insufficiente, male interpretati, etc.
E poi ci sono quelli che non reggono in nessun modo. Quelli che sono convinti che l'ivermectina, (gli stessi del siero, per capirci), è un farmaco miracoloso contro il coronavirus citano meta-analisi di dati di trial clinici per supportare la loro tesi, ma i più grossi risultati dentro quelle meta-analisi sono ormai crollati". (https://www.science.org/content/blog-post/awful-trials). 

Predicare bene e razzolare male non è certo un comportamento di cui vantarsi e mi sarebbe piaciuto se tutta questa complessa e tragica vicenda sanitaria non fosse stata strumentalizzata partiticamente e giornalisticamente, ( da parte di ogni schieramento ) mentre invece mi rendo sempre più conto che la strumentalizzazione partitica e giornalistica è stata la regola fin dal gennaio 2020. E continua a far danni.

venerdì 10 giugno 2022

UN’IMMAGINE “CHIMICA” DELLA FULIGGINE PER SPIEGARE IL COMBUSTIBILE PER AVIAZIONE SOSTENIBILE (SAF)


In tempi in cui il volume totale del combustibile per aviazione utilizzato ed il relativo quanto significativo aumento di prezzo, non costituiscono semplici dettagli, è utile spendere qualche parola per scrivere di SAF ( Sustainable Aviation Fuel). Con questo acronimo le compagnie aeree cargo e passeggeri hanno individuato la colonna portante per poter raggiungere gli aggressivi obiettivi di riduzione delle emissioni di carbonio che si sono prefissate. Per SAF si intende un biocarburante o combustibile per aviazione sostenibile, su cui molto si sta investendo in virtù, per quanto ho già detto, delle sue minori emissioni nette di carbonio. 

Allo stato attuale, grazie a svariati processi chimici, il SAF viene prodotto a partire da una varietà non indifferente di materie prime e prodotti di scarto (ma per precisione occorrerebbe anche far riferimento agli e-carburanti o e-Fuel sintetici). Sono 7 le fonti primarie che possono portare alla produzione di SAF e per l’esattezza (i) Fonti ricche di cellulosa quali i residui dell'eccesso di legno, prodotti agrari e residui forestali, (ii) Olio da cucina usato, tipicamente derivato da grasso vegetale o animale che è stato utilizzato per cucinare, (iii) Camelina una pianta robusta che cresce ovunque con un alto contenuto di olio lipidico e che richiede poca energia, mentre i suoi semi possono essere utilizzati in vari modi, dalla produzione di olio al mangime per gli animali, (iv) Jatropha, una pianta tossica I cui semi vengono utilizzati per produrre bio-diesel, (v) Alofite, un’ erba di palude, (VI) Alghe, piante microscopiche che possono essere coltivate in acque inquinate o salate, deserti e altri luoghi inospitali. Le alghe prosperano grazie all'anidride carbonica, (VII) Rifiuti solidi urbani, essenzialmente spazzatura proveniente da famiglie e imprese. Ad esempio, imballaggi di prodotti, erba tagliata, mobili, vestiti e bottiglie.


Un vantaggio indiscutibile del SAF è che brucia in modo molto più “pulito” del normale carburante per aviazione, ossia un combustibile a base di petrolio, o miscele di petrolio e combustibili sintetici dove, a seconda del tipo di aereo, abbondano cherosene o benzina. Questo perché circa il 20% / 30% del normale carburante per aviazione è costituito da idrocarburi aromatici come naftalene ed etilbenzene, che bruciando non completamente, formano più fuliggine di quanto non avvenga tipicamente con alcani lineari, ramificati e cicloalcani. La buona notizia è che la maggior parte delle metodiche chimiche per produrre SAF non da luogo a composti aromatici, ad eccezione dell'idro termolisi catalitica (CHJ).

Siamo a cavallo quindi! Non proprio, perché dal momento che i composti aromatici del normale carburante per aviazione fanno gonfiare le guarnizioni e altre parti in gomma o plastica degli aerei, i motori e le componenti strutturali adibite al rifornimento sono stati progettati e dimensionati in origine per poter far fronte e prevenire questo inconveniente. Ciò implica che, almeno per il momento, il SAF necessità di un “plus” di idrocarburi aromatici ottenibile ad esempio per miscelazione con una sia pur minima quantità di normale carburante per aviazione.


martedì 7 giugno 2022

TRIALS CLINICI, COSTI PER SOSTENERLI, DECENTRALIZZAZIONE, RIPERCUSSIONI SUL PREZZO DEL FARMACO E…”MA NON CIELODICONO”.


Lo sviluppo di farmaci comporta sempre un alto rischio che le cose non vadano sempre esattamente per il verso giusto. Una statistica comunemente citata rivela che il 90% dei programmi fallisce durante la fase di sperimentazione clinica, principalmente a causa della mancanza di una comprovata efficacia clinica. Solo negli Stati Uniti, ogni anno, vengono proposti e registrati migliaia di studi e se ci si limita a voler vedere la parte del bicchiere mezzo vuoto, già sappiamo a priori che quindi, ogni anno, potremo raccontare di una vasta gamma di risultati deludenti tra cui scegliere per poi scriverne la qualunque in termini di impatto negativo. 

Impatto negativo sui pazienti, ad esempio, dal momento che se lo sviluppo del farmaco fallisce, adiòs all’approvazione di “quella” terapia, per “quella” patologia. Impatto negativo sulle motivazioni e gli sforzi dei ricercatori e sviluppatori di quei farmaci, sul cui programma si è investito a manetta ( e non parlo d denaro ) facendo affidamento sul raggiungimento di un risultato positivo (https://ilgeneegoista.blogspot.com/2022/01/il-dietro-alle-quinte-che-ha-condotto.html).

Omettendo di citare l’alea per cui, a volte, potremmo assistere ad un riassestamento di una determinata classe di farmaci che va a consolidarsi in nuove aeree terapeutiche. All…been there, done that.


Ed ecco che quindi, tanto per dare un esempio di concretezza, quelli che elenco di seguito, rappresentano i 10 “flop” più significativi degli studi clinici del 2021. (https://www.fiercepharma.com/clinical-data). Mi spiace sinceramente se chi si prenderà la briga di andarli a leggere, si troverà di fronte a questo warning cercando di leggere l’articolo: “You are not authorized to access this page”.

Rimane sempre e comunque, per alcuni, l’alternativa di contare sino a 1.000 prima di “sparare” pretestuose, quanto inutili illazioni prima di sciorinare i soliti luoghi comuni sull’industria farmaceutica che sempre e comunque viene tutta identificata come Big Pharma, di cui, almeno il sottoscritto, ne ha le tasche piene, nonostante il tamburellante appoggio salvifico della ormai consolidata, quanto anch’essa “melliflua” ed impreparata fanbase. ( stranamente poi alcuni “personaggi” ce li ritroviamo, nemmeno tanto miracolosamente, quanto per interessi personali o per frutto di mercateggiamenti, seduti su comode poltrone, dalle più blasonate alle più “provinciali”  ma che in ogni caso dovrebbero servire per fare gli interessi pubblici di coloro che non hanno voce in capitolo). A tutto ciò corrisponde sempre una check list positiva o negativa? Non lo so, fate voi in base alle personali esperienze, ma siate onesti con voi stessi.

Quello che mi preme sia chiaro e che cito traducendo è: “Non c'è bisogno di dire che è molto difficile inventare nuovi farmaci. I farmaci rivoluzionari, e anche i drug candidates “miracolosi”, sono infatti rari, perché la ricerca farmaceutica è un problema di ottimizzazione multi-parametro: devono essere soddisfatte simultaneamente molte condizioni affinché un nuovo composto manifesti la capacità di migliorare seriamente le vite dei pazienti" (https://pubs.acs.org/doi/10.1021/acs.jmedchem.7b01445).


Vaccino Ad26.Mos4.HIV di J&J - Indicazione HIV

Bintrafusp alfa di GSK-Merck KGaA - Indicazione tumori multipli solidi

Vaccini e terapie COVID-19 (https://www.fiercebiotech.com/special-reports/2021s-top-10-clinical-trial-flops)

GLPG3970 di Galapagos-Gilead - Indicazione Artrite reumatoide e Colite ulcerativa

Gosuranemab di Biogen - Indicazione Alzheimer

Ligelizumab di Novartis - Indicazione Orticaria spontanea cronica

Il pevonedistato di Takeda - Indicazione Sindrome mielodisplastica e leucemia mieloide acuta

Rilzabrutinib di Sanofi - Indicazione Pemfigo volgare

Il tominersen di Roche-Ionis - Indicazione malattia di Huntington

Verdiperstat di Biohaven - Indicazione Atrofia multisistemica


Volendo spendere due parole a commento di questo elenco, ciò che spicca rispetto a quanto avvenuto negli anni precedenti è il numero molto alto di impasse nello sviluppo di farmaci relativi all’area COVID-19; cosa che non mi stupisce più di tanto dal momento che lo sviluppo molecolare in questo particolare settore, è iniziato solo nel 2020, quando la grave natura della pandemia, è diventata lampante per tutti.

A costo di risultare ripetitivo, inevitabile vista la cocciutaggine di molti, appare evidente come le indicazioni di questi farmaci spazino, oltre i vaccini, dal trattamento dell’HIV a farmaci per i trattamento del cancro, passando per le malattie neuro-degenerative e le malattie immunologiche/infiammatorie. Ciò implica che risulti impegnata una vasta gamma di aziende, da quelle biotecnologiche più piccole ai gruppi appartenenti a Big Pharma. Chiara abbastanza il concetto?


In questo articolo (https://www.science.org/content/blog-post/awful-trials?fbclid=IwAR1_oRMWs7H4I0hgJbhKbk5UGNuhSPhur7zq8kom2OVKmTIk1tUQpY2Tijg&) che andrebbe letto da chiunque e con attenzione data la “semplicità” del linguaggio, Derek Lowe scrive: “"Un grosso problema con queste storie è che pochissimi capiscono come funziona un trial clinico, o come funziona la statistica per interpretarlo. Così ogni sorta di dati inaffidabili vengono presentati come se fossero completamente solidi e indubitabili, e sono "risultati" da "trial" miseramente controllati, di potenza statistica insufficiente, male interpretati, etc.

E poi ci sono quelli che non reggono assolutamente. Quelli che sono convinti che l'ivermectina è un farmaco miracoloso contro il coronavirus citano meta-analisi di dati di trial clinici per supportare la loro tesi, ma i risultati più corposi dentro quelle meta-analisi sono ormai crollati…………….Sfortunatamente, le convinzioni appassionate non hanno alcun potere per poter curare la gente da una malattia.”

Ma non è detto che, proprio i trials clinici ad esempio, il cui costo è in costante aumento per svariati motivi, possano rappresentare un elemento di spesa nell’ambito dello sviluppo farmaceutico, anche se, soprattutto il Italia, quando si inizia a parlare di spesa farmaceutica, si aprono squarci di fantasia inaudita con tanti saluti al buon senso e dove si fa a gara per confondere le idee a proposito di chi guadagna su cosa, e come.

Fortunatamente, si sono individuate nuove vie e la “decentralizzazione” dei trials clinici pare essere in grado di ripagare dal punto di vista finanziario e non solo (https://www.fiercebiotech.com/cro/decentralized-studies-offer-financial-benefits-says-new-study).


Ciò detto, il grottesco è che si taccia su quanto chiarito dal Presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi, e difficilmente smentibile (nel caso ci fosse qualche illuminato in grado di farlo, sarei ben felice di ascoltarne le argomentazioni, mentre le opinioni le confinerei ad altri lidi) nel corso dell’International Clinical Trials Day: "Le aziende farmaceutiche si fanno carico di tutte le spese connesse agli studi, come ospedalizzazione, farmaci ed esami diagnostici. E assicurano così al Servizio Sanitario Nazionale importanti risorse e minori costi. Ogni euro investito in Italia dalle imprese, secondo un’indagine di Altems, genera un beneficio complessivo per il Ssn pari a 2,77 euro”. 

Occorre quindi saper cogliere la palla al balzo e far si che l’Italia si collochi in una posizione di rispetto nella R&S clinica. Ovviamente tutto ciò avrà un “prezzo” da pagare. Nel caso non lo si facesse si correrebbe il rischio di essere sopravanzati da altri Paesi, ed a patirne non sarebbe solo il SSN e relativi investimenti, ma l’insieme tutto degli incolpevoli pazienti. Tradotto, dovremo diventare sempre più competitivi, cercando di attirare una buona fetta di quegli oltri 1.200 miliardi di euro che saranno investiti nel mondo in R&S tra il 2021 e il 2026.

Ci sono treni che passano ad orari che non vengono sempre pre annunciati; o li prendi al volo oppure se ti gira male ti attrezzi per raggiungere a piedi la meta, anche se in questo caso non sarebbe esattamente proprio un gioco da ragazzi. Che poi, per salire su quel benedetto treno basterebbe poi solo creare le condizioni migliori per attrarre gli investimenti e ottimizzare e rendere più flessibili le procedure che vengono richieste per lo sviluppo di nuovi farmaci, attraverso, e sarebbe l’ora, il varo di quei decreti capaci di rendere attuativo il Regolamento europeo sulla Sperimentazione Clinica. (https://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=104924).