mercoledì 29 maggio 2024

NON SI CAVA IL SANGUE DA UNA RAPA ANCHE SE SEI UN “PLURIDECORATO AL MERITO DELLA SCIIENZAH”: IDROSSICLOROCHINA…ONCE AGAIN.


Forse non tutti rammentano quando durante il periodo più nero della pandemia COVID il medico francese Didier Raoult si sperticava nell’affermare di aver individuato una cura, l’idrossiclorochina, con relativa ampia eco mediatica grazie anche al galvanizzato “endorsement” di Donald Trump (https://www.nytimes.com/2020/04/01/health/hydroxychloroquine-coronavirus-malaria.html). Superfluo dire che tale affermazione fu ampiamente messa in discussione da moltissimi altri scienziati, mentre è meno scontato pensare che una simile querelle continui ancora adesso (motivo del Post). Ma chi è il Dr Didier Raoult? Un microbiologo francese in pensione (ma…Toh!) specializzato in malattie infettive che incarna tutto quanto gira per il verso sbagliato nell’attuale campo della ricerca scientifica. Eppure…dal 2008 al 2022 ha diretto l’Istituto di Ricerca sulle malattie tropicali a Marsiglia…eppure è autore di 2.300 pubblicazioni (in pratica la bellezza di 2 a settimana per vent’anni) nonché uno dei microbiologi più menzionati al mondo (il perchè sarebbe inutile ripeterlo, dal momento che poneva la sua firma su tutti gli studi che chiunque pubblicasse all’interno del suo Istituto).

Che poi le malattie tropicali abbiano un nesso con il Sars-Cov-2, almeno per il sottoscritto, rimane un mistero mentre non lo è il fatto che l’idrossiclorochina trovi impiego come antimalarico, farmaco che ovviamente il Dr Raoult conosce bene. E così, passare dal trattamento della Malaria alla Covid è stato un attimo tanto che nel 2020, l’illustre medico pubblicò un piccolo studio in cui sosteneva che l’idrossiclorochina fosse in grado di aiutare a curare la Covid (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0924857920300996?via%3Dihub). Peccato che, come segnalato dalla microbiologa Elisabeth Bik, le persone assegnate al gruppo in trattamento farmacologico fossero mediamente molto più giovani rispetto a quelle del gruppo di controllo il che spiega plausibilmente la differenza nei risultati. Per non parlare del fatto che le 6 persone decedute fossero state rimosse dalla casistica. Lo studio ha comunque superato la peer review entro le 24 ore.


Non c’è quindi nulla da meravigliarsi se il Dr Raoult abbia raccolto un vasto seguito di sostenitori anche grazie ai suoi numerosi Tweet. Purtroppo (per Lui) però, gli studi e gli approfondimenti continuarono, mentre gli iniziali entusiasmi, andavano via via scemando (fatto salvo che per i suoi fedeli accoliti) dal momento che quei risultati dello studio non riuscivano ad essere dimostrati né riprodotti in alcun modo. Indagini più ampie (https://www.nbcnews.com/health/health-news/another-large-study-finds-no-benefit-hydroxychloroquine-covid-19-n1212886#:~:text=Coronavirus-,Another%20large%20study%20finds%20no%20benefit%20to%20hydroxychloroquine%20for%20COVID,an%20increased%20risk%20of%20death.&text=Hydroxychloroquine%20does%20not%20help%20COVID,published%20Friday%20in%20The%20Lancet) rilevarono che l’idrossiclorochina non impattava né sulla prevenzione né sulla cura della Covid, ma non solo, il farmaco aveva molti effetti collaterali per cui gli Enti Regolatori ne sconsigliarono l’utilizzo Vs il Sars-CoV-2 (https://thehill.com/changing-america/well-being/prevention-cures/493995-nih-panel-recommends-against-use-of/).


Fine della storia quindi… Ah…no! Da parte del Dr Raoult partì una selva di tuoni fulmini e saette, contro la comunità scientifica ed in particolar modo nei confronti di Elisabeth Bik, accusandola di essere stata pagata dalle Industrie Farmaceutiche al fine di screditarlo a favore dell’antivirale Remdesivir: “She received money directly or indirectly from Pharmaceuticals companies and more from Gilead which markets Remdesivir” sino al punto di citarla in giudizio con l’accusa di molestie e ricatti (https://x.com/raoult_didier/status/1406986822765395969) link suggerito da Raoult misteriosamente scomparso, mentre parrebbe evidente l’accanimento verso la microbiologa olandese (https://www.theguardian.com/science/2021/aug/03/microbiologist-elisabeth-bik-queried-covid-research-thats-when-the-abuse-and-trolling-began?CMP=fb_gu&utm_medium=Social&utm_source=Facebook#Echobox=1627945470). 

Non pago, il Dr Didier Raoult lo scorso anno, superò se stesso quando annunciò di aver portato a termine un ulteriore “gigantesco” studio, sempre al fine di avvalorare la bontà dell’impiego dell’idrossiclorochina come terapia della Covid, affermando di aver arruolato più di 30.000 soggetti concludendo che l’antimalarico in questione riduceva la mortalità causata dal  Sars-CoV-2 (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2052297523001075?via%3Dihub). Vabbè…difendere le proprie precedenti asserzioni, rientra nel comportamento tipico di ogni essere umano (che sia un Premio Nobel, un illustre ricercatore o una tranquilla persona qualsiasi), ma farlo attraverso una sperimentazione iniziata nel 2020 e conclusasi a fine 2021 rasenta il “delirio”, per essere gentile, dal momento che è stata condotta molto tempo dopo che il Governo Francese aveva ritirato il permesso di impiegare l’antimalarico per curare i pazienti colpiti dalla Covid (https://www.lastampa.it/esteri/2020/05/27/news/la-francia-vieta-l-idroclorochina-aumenta-il-rischio-mortalita-nei-malati-covid-1.38895630), alla faccia di ogni approvazione etica, mai concessa, per il rischio di esporre inutilmente i pazienti al pericolo di nefaste conseguenze per la loro vita!!!


Va da sé, che dopo questa ennesima sparata, sul quotidiano Le Monde apparve una lettera aperta a firma di ben 14 Società Scientifiche ((https://www.lemonde.fr/en/opinion/article/2023/05/29/clinical-trials-at-didier-raoult-s-former-institute-in-the-absence-of-any-institutional-reaction-the-serious-breaches-observed-could-become-the-norm_6028406_23.html) che chiedevano un’indagine approfondita sull’operato del medico nonostante, anche questa volta, il suo studio, come riportato nel link sopra, fosse stato pubblicato nell’ Ottobre del 2023. Tuttavia, ad Aprile, il Tribunale di Marsiglia ha respinto le accuse del Dr Raoult nei confronti della Dottoressa Elisabeth Bik per cui, non pago, ha deciso immediatamente di cambiare “bersaglio” citando in giudizio il matematico Guillaume Limousin, reo secondo lui di aver stilato un elenco di inesattezze, carenze e mancanze riguardanti i suoi documenti postati su Twitter (https://www.lexpress.fr/sciences-sante/guillaume-limousin-le-petit-prof-contre-didier-raoult-on-peut-tous-faire-bouger-les-choses-7XXE77HMTNBGVI4D6O5UDBVO7Y/). A quanto ci è dato sapere, nonostante il Dr Raoult abbia sciorinato, non senza parsimonia, tutti i suoi presunti risultati scientifici, il Tribunale si è dimostrato totalmente disinteressato a tali argomentazioni respingendo di fatto tutte le accuse nei confronti del matematico francese. Un noto proverbio cita: “chi troppo vuole nulla stringe” ed infatti, tutto questo can-can sull’idrossiclorochina scatenato dal Dr Raoult, non ha prodotto alcun risultato se non quello di aver spinto ad indagare maggiormente sui suoi precedenti studi, molti dei quali non avevano ricevuto alcuna approvazione da parte dei competenti comitati etici che avrebbero dovuto essere coinvolti. Ecco quindi emergere le prime magagne, dapprima ad opera dell’ progetto editoriale PLOS che cura la pubblicazione di sette riviste tutte caratterizzate da revisione paritaria nonché open access, grazie al quale ben 49 studi furono attenzionati per violazione delle fondamentali normative etiche (https://retractionwatch.com/2022/12/13/plos-flags-nearly-50-papers-by-controversial-french-covid-researcher-for-ethics-concerns/) mentre nel tempo la “lista delle pezze di appoggio” andavano via via accumulandosi: (https://retractionwatch.com/2024/04/03/embattled-researcher-didier-raoult-earns-dozens-more-expressions-of-concern-and-another-retraction/), (https://retractionwatch.com/2023/10/31/controversial-french-researcher-loses-two-papers-for-ethics-approval-issues/) sino ad arrivare al ritiro di 7 pubblicazioni oltre a 2 reports scientifici da parte della Società Americana di Microbiologia. Sinceramente un racconto per nulla edificante, se consideriamo il fatto che parecchi di questi studi hanno visto coinvolti clochard, rifugiati e persone che vivevano nell’indigenza più assoluta. Come tutto ciò sia potuto accadere ed andare avanti per così tanto tempo in una Nazione come la Francia mi lascia disgustato nonostante ne abbia viste di ogni. Ma cribbio!!!

…Le persone morivano perchè non ricevevano le cure adatte, ed in fin dei conti dimostra come sia molto complicato reperire fonti affidabili da consultare e citare.


Al di là di scoprire se una cosa è vera oppure no, ci dovremmo tutti interrogare su quanto sia fondamentale capire del perchè ci abbiamo creduto, cercando di allontanare le Sirene che troppo spesso rendono attraenti voci che alla resa dei conti si dimostrano false. 


domenica 26 maggio 2024

L’ULTIMO OMAGGIO AL DR. PAOLO SPADA ED IL SUO MESSAGGIO DI SPERANZA AI GIOVANI.

 


Imparammo a conoscere il Dr Paolo Spada durante il periodo più buio del periodo Covid quando iniziò a condividere informazioni sulla pandemia pubblicate sulla pagina “Pillole di ottimismo” (PdO) senza mai cedere all’arroganza pretestuosa e ad alcun genere di allarmismo ingiustificato. Si è sempre speso, con tutto se stesso, per regalarci una visione ottimistica di ciò che stava accadendo non cadendo nel tranello dell’”andrà tutto bene” ma piuttosto nell’insegnarci ad avere fiducia nelle armi delle scienza grazie alla sua smisurata capacità di comunicare scientificamente e con semplicità anche i temi più complessi. 


Che possa riposare in pace, Dottore. Sentite condoglianze alla sua famiglia tutta.


sabato 25 maggio 2024

L’AFICAMTEN PER AIUTARE LE PERSONE AFFETTE DA (HCM), CARDIOMIOPATIA IPERTROFICA, A SVOLGERE PIU’ FACILMENTE IL QUOTIDIANO QUANTO FONDAMENTALE ESERCIZIO FISICO ED IL “DESTINO” DELLE BIOTECH.


L’HCM colpisce circa 1 persona su 500 e costituisce una delle cause più comuni di morte improvvisa tra i giovani ed alcuni atleti apparentemente sani. Spesso causata da mutazioni genetiche ereditarie, determina, tra le altre cose, un’ipertrofia del setto interventricolare, più semplicemente la parete posta tra il ventricolo dx e sx, compromettendo la funzionalità cardiaca. Tra le conseguenze più comuni si annoverano una marcata mancanza di respiro ed una ridotta capacità di svolgere gli esercizi fisici.


Il New England Journal of Medicine ha pubblicato questo mese uno studio di Fase 3 in doppio cieco (https://www.nejm.org/doi/10.1056/NEJMoa2401424) presentato anche al meeting Heart Failure 2024 della Società Europea di Cardiologia a Lisbona. Secondo questo studio denominato SEQUOIA-HCM, proposto dalla Cytokinetics e che ha visto impegnata anche la Oregon Health & Science University (OHSU), l’Aficamten, un farmaco sperimentale inibitore della miosina cardiaca, può migliorare la disponibilità di ossigeno durante l'esercizio fisico nei pazienti affetti da cardiomiopatia ipertrofica (HCM). 

Lo studio ha arruolato un totale di 282 soggetti con scompenso cardiaco di classe funzionale NYHA II o III e ridotta capacità di esercizio.  Tutti i pazienti presentavano una frazione di eiezione ventricolare sinistra (LVEF) di almeno il 60% e un gradiente LVOT di almeno 30 mm Hg a riposo e di almeno 50 mm Hg dopo la manovra di Valsalva e sono stati randomizzati in due gruppi: 142 sono stati trattati con  Aficamten e 140 con Placebo. 

Sono stati quantificati i livelli di ossigeno di tutti i partecipanti l’indagine mentre utilizzavano il tapis roulant o la ciclette. Ne è emerso che il gruppo trattato con Aficamten ha aumentato il picco di assorbimento di ossigeno di 1,7 ml/kg/minuto in 24 settimane rispetto al gruppo trattato con Placebo. Se consideriamo che in questi pazienti, un aumento di 1 ml/kg/min è in genere considerato clinicamente significativo appare ovvio che tale risultato abbia soddisfatto appieno quello che era l’endpoint primario dello studio, nonchè una decina di endpoint secondari, tra cui la qualità della vita e la sintomatologia generale.

Tradotto tutto in soldoni, non è difficile comprendere come il riuscire ad aumentare il picco di assorbimento di ossigeno sia in grado di migliorare la capacità di un paziente di essere fisicamente attivo mentre, al contrario, un basso livello di assunzione di ossigeno si associa ad un aumento del rischio di incorrere in una insufficienza cardiaca anche grave, sino al punto di dover ricorrere al trapianto cardiaco.


Che piaccia o meno, attualmente, non è che le opzioni di trattamento della HCM siano così numerose. Da un lato, l’intervento chirurgico per rimuovere il muscolo cardiaco in eccesso, dall’atro una prima opzione terapeutica farmacologica. Nel 2022 la Food and Drug Administration ha approvato il Mavacamten (https://www.fda.gov/drugs/news-events-human-drugs/fda-approves-new-drug-improve-heart-function-adults-rare-heart-condition) come primo farmaco sviluppato per minare alla base la causa dell’HCM ostruttiva.

Tuttavia, quello che è emerso è che il Mavacamten potesse aumentare il rischio di insufficienza cardiaca oltre ad interagire negativamente con diversi farmaci comunemente utilizzati e per tali motivi venne consigliato un intenso monitoraggio per tutti i fruitori di questa terapia.


Tuttavia la Cytocinetics è un’azienda biotech, per cui giova fare un minimo di distinguo. Probabilmente non tutti sono al corrente del fatto che le aziende biotech, così come parecchie startup, sono diventate la fonte principale per arricchire il portfolio farmaceutico delle grandi compagnie del settore a livello mondiale. In sostanza, per biotech si intende un'azienda che nasce a partire da una competenza specifica o da un'idea innovativa derivante dalla ricerca, con l'intento di sviluppare i propri farmaci o terapie ma solo sino a quando sono in grado di sostenere tutto il processo, e quando questi progetti si dimostrano promettenti una società più grande (spesso di dimensioni molto superiori) potrebbe acquistarli per completarne lo sviluppo o per lanciarli sul “mercato”, un'operazione che può avere successo o meno. Insomma, per le biotech, il gioco regge sino a quando possono contare sui finanziamenti degli investitori ma è evidente che quando diventa più difficile o costoso ottenere i finanziamenti (come avviene generalmente quando i tassi di interesse bancari sono parecchio elevati), queste aziende tendono a rallentare le loro attività e a sentirsi sotto pressione. 


Ritornando alla Cytocinetics nello specifico, non è una novità che l’Azienda rientri tra gli obiettivi di fusioni e acquisizioni da parte di grandi aziende farmaceutiche (Novartis ad esempio stava gironzolandoci intorno già dallo scorso autunno, per poi ritirarsi a Gennaio) per cui vediamo di fare un minimo di chiarezza. La Cytocinetics è reduce da anni di intoppi clinici e normativi; lo scorso anno fu in odore di approvazione da parte dell’FDA del loro candidato farmaco Omecamtiv Mecarbil per l'insufficienza cardiaca poi però respinto a febbraio dalla stessa Food and Drug Administration e tanto per non farsi mancare nulla, a maggio il loro Reldesemtiv per la sclerosi laterale amiotrofica si è rivelato inefficace in uno studio di fase 3. Ora, finalmente, i risultati molto positivi dello studio di fase 3 SEQUOIA-HCM per l’Aficamten, insomma una boccata di ossigeno. Ma non è tutto oro ciò che luccica infatti, per assicurarsi la commercializzazione del farmaco, la Cytocinetics ha stretto un accordo di finanziamento da 575 milioni di dollari con la Royalty Pharma, il maggiore acquirente mondiale di royalties biofarmaceutiche e uno dei principali finanziatori nell’ambito della ricerca biofarmaceutica. Questo complicato accordo di finanziamento strategico ha tuttavia lasciato molto perplessi i finanziatori che hanno fatto scendere il titolo del 14% nelle negoziazioni pre-mercato giovedì mattina, ponendo l’Azienda in serie difficoltà economiche. Il perchè di tutto questo è presto detto,  gli investitori speravano in un grosso accordo di fusione e acquisizione dopo il successo dello studio di fase 3 SEQUOIA-HCM, specialmente con Novartis, che però, come ho già scritto sopra ha fatto un passo indietro a Gennaio.


Tutto ciò mi fa concludere che ritorneremo a parlare di questa questione molto presto. 

sabato 18 maggio 2024

ANCORA OBESITA’, WEGOVY & OZEMPIC …AND SO ON.


Di Wegovy (e Mr. Steve Johnson - una persona qualsiasi - :-) ) ho già scritto qualcosa qui: https://ilgeneegoista.blogspot.com/2022/07/mr-steve-johnson-ed-il-suo-rapporto-con.html, e qui: https://ilgeneegoista.blogspot.com/2022/08/mr-steve-johnson-dalla-teoria-alla_3.html. Ora proverò a farne maggiore chiarezza e quindi ricominciamo dall’inizio. 

Nel 2021 l’FDA approvò Wegovy, un farmaco a base di Semaglutide (2,4 mg una volta alla settimana), per il controllo cronico del peso negli adulti con obesità oppure sovrappeso con almeno una condizione a questo correlato (ad es. ipertensione, diabete di tipo 2 o ipercolesterolemia), da utilizzare in concomitanza ad una dieta ipocalorica e ad una maggiore attività fisica (https://www.fda.gov/news-events/press-announcements/fda-approves-new-drug-treatment-chronic-weight-management-first-2014), una opzione terapeutica che a differenza di quasi tutti i precedenti farmaci dimagranti funzionava davvero bene, tanto da diffondersi in poco tempo in tutto il mondo e da guadagnarsi le prime pagine di importanti testate giornalistiche (https://www.nytimes.com/2021/02/10/health/obesity-weight-loss-drug-semaglutide.html). 

Attualmente l’azienda produttrice Novo Nordisk commercializza due farmaci a base di Semaglutide, il Wegovy e l’Ozempic (farmaco impiegato per il trattamento del diabete di tipo 2) con la differenza che il Wegovy è distribuito ad un dosaggio più elevato. Come ho già avuto modo di scrivere, la Semaglutide è una molecola analoga  ad un peptide simile all’ormone Glucagone o GLP-1 prodotto fisiologicamente dal nostro organismo. Il GLP-1 viene rilasciato, in risposta all’ingestione di cibo, nel tratto gastrointestinale e da qui invia altri segnali in diversi distretti del nostro organismo. A livello pancreatico, genera la produzione di Insulina allo scopo di ridurre i livelli di zucchero nel sangue e, dal momento che la Semaglutide mima la stessa azione, ciò costituisce il motivo per cui fu considerata efficace per curare il diabete. 

Al contrario di quanto molti pensano circa lo sviluppo clinico di una nuova molecola che avverrebbe al fulmicotone e senza intoppi e/o imprevisti (caxxata su cui ho avuto modo di scrivere più volte), il trattamento del diabete di tipo 2 con la Semaglutide è stato indagato per oltre un decennio e Ozempic ottenne l’autorizzazione e l’indicazione nel 2017. Già a partire dai primi studi in merito tuttavia, emerse che uno dei possibili effetti collaterali fosse la perdita di peso e non è certo la prima volta che un effetto non previsto possa dare il via a nuove ricerche per trasformarlo in qualcosa di desiderato. Non vi dice nulla l’ormai illustre ed agognata “Pillola Blu”? Ebbene, per chi non lo sapesse ancora (non so esattamente quanti) il Sildenafil (Viagra), originariamente sviluppato da Pfizer per il trattamento dell’ipertensione e dell'angina pectoris, durante gli studi clinici, mostrò una maggiore efficacia nell’indurre l’erezione rispetto alle indicazioni proposte all’inizio.


Sta di fatto che dopo un certo periodo di tempo in cui l’Ozempic venne utilizzato per trattare l’obesità, grazie a prescrizioni off-label (ossia per indicazioni non presenti in scheda tecnica), la Novo Nordisk pensò di mettere a punto un nuovo farmaco mirato appositamente per favorire la perdita di peso. A grandi linee, fu così che “nacque” Wegovy, approvato come trattamento “anti obesità” dapprima negli USA nel 2021 e quindi in ambito UE nel 2022. Clinicamente, comunque, come agisca esattamente la Semaglutide, è ancora oggetto di approfondimenti dal momento che è in grado di determinare pure un miglioramento delle condizioni cardiovascolari anche se l’effetto preponderante, a conti fatti ed in parole più spicce, resta quello di facilitare la riduzione dell’assunzione di cibo. Non a caso anche lo stomaco sarebbe dotato di recettori per il GLP-1 sui quali la Semaglutide andrebbe ad agganciarsi rallentando in tal modo lo svuotamento gastrico e causando un più persistente senso di sazietà così come parrebbe agire a livello cerebrale dove contribuirebbe a ridurre il senso della fame.


Questi farmaci sono attualmente disponibili in forma liquida in una penna pre-riempita e somministrati sottocute una volta alla settimana nella parte superiore del braccio, della pancia o della coscia ed il dosaggio può essere incrementato gradualmente. Per completezza occorre dire che la Semaglutide è disponibile anche in compresse, ma sono in pochi ad utilizzarle per via della loro compliance notevolmente inferiore dal momento che occorre assumerle tutti i giorni con abbondante acqua, a stomaco vuoto, per poi attendere mezz’ora prima di mangiare. Se poi ci aggiungiamo il fatto che diversi studi, tra cui quello qui riportato (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/34248838/) abbiano rilevato che la perdita di peso sarebbe sostanzialmente inferiore rispetto alla formulazione in penna, il gioco è fatto. Tuttavia, ad onor del vero, uno studio molto recente (https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(23)01185-6/abstract) ha riportato che l’assunzione di una dose più elevata per via orale possa indurre una perdita di peso simile a quelle delle iniezioni. A quanto pare la scienza è molto democratica in questi casi…;-)


Quanto a come si esplichi l’attività clinica della Semaglutide, faccio una doverosa premessa, almeno per il sottoscritto. Nel mentre che pian piano aumentiamo le nostre conoscenze, ciò non significa che rappresentino la Verità unica ed inossidabile, ma semplicemente quello che al momento rappresenta al meglio la cosa più probabile.  

Nel 2022 è stato condotto uno studio in doppio cieco (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/35441470/) da parte di un team internazionale non esente da legami/rapporti con Novo Nordisk oltre ad altre Aziende per cui rimando alla voce “Conflict of interest statement” dell’articolo sopra citato, il che non significa affatto che ci si debba sentire autorizzati ad intonare la solita solfa del: Ohibò!…Tanto sono stati pagati” perchè in tal caso avrei esaurito le braccia che possono essere attratte dalla forza di gravità. In questo studio sono stati reclutati circa 2.000 soggetti adulti non diabetici con un indice di massa corporea uguale o maggiore di 30. Ovviamente, data la tipologia dello studio, ad alcuni  è stata somministrata una iniezione settimanale per 68 settimane di Semaglutide, ad altri, sempre con le stesse modalità, di Placebo. In aggiunta, tutti i partecipanti hanno dovuto variare il proprio stile di vita, riducendo di 500 Kilocal l’apporto calorico giornaliero legato ai pasti e facendo attività fisica per almeno 150 minuti a settimana. Al termine delle 68 settimane, il gruppo trattato con Semaglutide perse mediamente il 15% del proprio peso iniziale mentre il gruppo trattato con Placebo solamente il 2,4%. Due paroline anche sugli effetti collaterali più comuni, riscontrabili nel 5% del campione: nausea, vomito, diarrea e/o costipazione, dolori addominali. Che poi tali effetti tendano a diventare gradualmente più lievi non dovrebbe costituire motivo di stupore, dacché rientra nel normalmente atteso. Tuttavia, in alcuni casi, e sottolineo alcuni, nausea ed affaticamento diventano così disturbanti da dover interrompere l’assunzione del farmaco. In fase di studio poi possiamo annoverare anche altri potenziali problemi a lungo termine come il cancro al pancreas, alla tiroide, alla retina, episodi di autolesionismo e l’adattamento dell’organismo in termini di risposta recettoriale, alla quantità di Semaglutide assunta. Ma tranquilli, allo stato attuale non ci sono prove a sostegno di tutto ciò.

In soldoni, per chi si domandasse quanto peso si può perdere con questa molecola, bhe...varrebbe la pena analizzare queste considerazioni: se si segue una dieta “generica”, con buona probabilità si rischierà una perdita sia di grasso ma anche di muscoli motivo per cui i medici consigliano sempre che la massa magra che si perde con una dieta non dovrebbe essere superiore ad 1/4, per cui i 3/4 del peso perso dovrebbero essere a discapito dei grassi, mentre con l’assunzione di Semaglutide il peso calava con una perdita del 60% dei grassi il che comunque non costituisce un fatto eccezionale soprattutto per le donne che fisiologicamente sono dotate di una maggiore quantità di grasso corporeo rispetto alla massa muscolare così come pure per gli anziani. 


Più agevole invece è capire cosa possa accadere quando si smette di assumere il farmaco: semplicemente si ritorna ad aumentare di peso, come  si può leggere sempre nello studio di cui sopra. Dopo un anno di non assunzione, il gruppo trattato con Semaglutide riacquistò i due terzi del peso perduto mentre il gruppo trattato con Placebo ritornò al punto di partenza. Discorso analogo, per i miglioramenti del controllo pressorio quando lo stile e le abitudini di vita ritornarono ad essere quelle di prima. 

Inutile dire che sfruttare questo effetto ad “elastico” della molecola, del tipo occasioni speciali come inviti ad eventi, matrimoni per non parlare del superare la maniacale prova bikini, non sarebbe propriamente un’idea geniale (e non mi riferisco ovviamente ai costi). 


giovedì 16 maggio 2024

PLASTICA (ANCHE) NEL CIBO, GLI ESPERTI LANCIANO L'ALLARME…E LA TV PRONTAMENTE RISPONDE.


Cominciamo con il chiarire perchè è così importante preoccuparsi di quanto tempo la plastica possa mantenersi nell’ambiente. La plastica si ottiene a partire da gas naturale o petrolio, per cui non sarebbe male come fonte di energia se la si dovesse incenerire…tuttavia  si porterebbe appresso gli stessi problemi che si riscontrano per la combustione sia del gas naturale che del petrolio, tra cui il  rilascio di CO2 (in Europa…il male del secolo per cui ogni due per tre si tirano in ballo le quote pro capite di CO2 mentre lo sweatshop, ossia lo sfruttamento dell’area asiatica e del sud del mondo creati dalla globalizzazione …chi se ne frega).


Le materie plastiche, essendo create dall’uomo, si possono definire sintetiche. Solitamente si identificano con nomi dal prefisso “poli” come ad esempio polietilene, polipropilene, poliestere (PVC o PET). Nel termine polimero, tale prefisso, indica “molti” ed esprime il concetto che nella plastica le molecole sono a lunga catena e si ripetono e questo è il motivo per cui la plastica può essere facilmente riprodotta in serie oltre ad essere dotata di una estrema resistenza visto che i batteri che si sono evoluti per scomporre i materiali organici, faticano non poco a digerire la plastica. Bene…ma quanto è “persistente” la plastica? (vocabolo inteso come il periodo di tempo durante il quale un materiale/sostanza potenzialmente contaminante permane nell'ambiente). A conti fatti, nessuno ha un’idea precisa di quanto la plastica possa persistere nell’ambiente. Infatti gli studi che hanno preso in esame il quesito molto spesso non prendono in considerazione elementi fondamentali come ad esempio l’esposizione alla luce solare, la temperatura, la dimensione/forma del campione e quindi non è assolutamente chiaro come i dati che si possono rinvenire anche in rete possano impattare numericamente sulla nostra vita. Gli esperti del settore, non concordano neppure su una definizione standard di cosa si intenda per “degradazione della plastica” ed infatti la recente letteratura sull’argomento, sottoposta a revisione paritaria, suggerisce che la plastica nell’ambiente potrebbe degradarsi in tempi molto più rapidi rispetto a quelli indicati sino ad ora, proprio per effetto dell’esposizione alla luce solare rispetto all’azione dei batteri. Non è un caso se questo studio (https://pubs.acs.org/doi/10.1021/acs.estlett.9b00532) suggerisce tra le altre cose, che il polistirene è in grado di degradarsi entro un paio di secoli se esposto alla luce solare e non in migliaia di anni come si pensava precedentemente.


Sostanzialmente è possibile riciclare la plastica in vari modi, ma se si lavorano diverse tipologie di plastica, ciò che si ottiene diventa difficile da separare a discapito naturalmente della qualità tanto che molti rifiuti di plastica finiscono nelle discariche o altrove come i fiumi ed i mari e non a caso attualmente negli Oceani ci sono circa 150 milioni di tonnellate di rifiuti plastici che incrementeranno ad un ritmo di 10 milioni/anno in cui incapperanno uccelli e pesci i quali finiranno con l’ingerirli. Questo non rappresenta di certo un bene visto che l’assunzione di plastica oltre ad agire negativamente su alcune funzioni dell’apparato digestivo, contenendo sostanze chimiche che conferiscono alla plastica un certo grado di morbidezza e stabilità, risulterebbero tossiche per gli animali. 

E, purtroppo, non finisce qui poiché una volta che una sostanza entra a far parte della catena alimentare, questa potrà diffondersi nell’intero ecosistema e man mano che si diffonderà, la plastica sarà scomposta in frammenti sempre più piccoli sino a raggiungere dimensioni inferiori al micrometro. Sono questi prodotti ad essere definiti come MICROPLASTICA. Dagli animali ai nostri mercati è un niente, sino a giungere all’uomo. 


A discapito delle notizie acchiappa clickbait, quali siano le reali conseguenze nessuno lo sa esattamente infatti sappiamo che le microplastiche costituiscono un terreno fertile per batteri e patogeni (il che non è ovviamente il massimo dell’aspirazione) ma anche altre micro particelle derivanti da foglie o rocce presentano lo stesso problema e non è detto che anche l’uomo non le ingerisca.

Al momento non è chiaro se ingerire microplastiche rappresenti un pericolo per la salute. Oltretutto le microplastiche possono essere di dimensioni così ridotte da poter circolare nell’aria insieme alla polvere e quindi essere anche inalate. In letteratura si possono leggere alcuni studi, condotti su colture cellulari, in cui si evidenzia come queste particelle siano così piccole da poter entrare nel sistema linfatico e circolatorio ma, a costo di ripetermi, in che misura tutto ciò incida sulla nostra salute non è stato ancora sufficientemente chiarito nonostante vi siano ricerche in corso che puntano a dimostrare come l’accumulo negli organi o nei tessuti delle micro e nanoplastiche possano favorire l’insorgenza di alcune patologie causate dalla formazione e dall’accumulo di aggregati proteici tossici quali

l’Amiloidosi, l’Alzheimer, l’Huntington e la Sclerosi Laterale Amiotrofica. Idem dicasi per il cancro del colon-retto, nonostante i consueti allarmismi mediatici propinati, come nel caso di quanto discusso nella trasmissione di cui rimando all’immagine del post. Cerchiamo di di non fraintendere: siamo sempre e comunque nel perimetro delle ipotesi, dei “potrebbe” e delle possibilità (ancora tutte da dimostrare però). Tanto per essere chiaro riporto due conclusioni tratte da altrettante ricerche: “La dimensione delle particelle delle microplastiche estratte dai tessuti del colon varia da 1 a 1299 μm. Le microplastiche includevano polietilene, poli(metilmetacrilato) e nylon (poliammide). Nel complesso, i nostri risultati suggeriscono una POSSIBILE connessione tra il cancro del colon-retto e l’esposizione alla microplastica” (https://www.researchgate.net/publication/368234947_Higher_number_of_microplastics_in_tumoral_colon_tissues_from_patients_with_colorectal_adenocarcinoma#:~:text=The%20particle%20size%20of%20microplastics,colorectal%20cancer%20and%20microplastic%20exposure) ed ancora: “Sebbene NULLA sia stato ancora dimostrato, le microplastiche ingerite da una persona potrebbero rimanere bloccate nell’intestino, distruggendo lo strato di muco nell’intestino e riducendone l’effetto protettivo, aumentando la probabilità di cancro del colon-retto (https://www.thepress.co.nz/nz-news/350232204/could-microplastics-be-causing-increase-bowel-cancer-under-50s#:~:text=While%20nothing%20had%20been%20proven,of%20colorectal%20cancer%2C%20Frizelle%20said).


Diverso è invece il discorso che riguarda dal punto di vista professionale quegli operatori che lavorano a stretto contatto con le fibre plastiche e che respirano regolarmente quantità di microplastiche sviluppando maggiori probabilità di presentare problemi respiratori rispetto alla popolazione generale, quali tosse e riduzione della capacità polmonare. Ma anche in questo caso i dati disponibili circa l’insorgenza del cancro ai polmoni non sono affatto conclusivi.


Potevano inoltre i media astenersi dal proporre anche una possibile correlazione con l’obesità? Ma naturalmente no! (https://www.greenme.it/salute-e-alimentazione/salute/avresti-mai-detto-che-la-plastica-di-bottiglie-e-flaconi-fa-ingrassare-e-blocca-il-metabolismo/), (https://www.bloomberg.com/opinion/articles/2022-09-11/plastic-might-be-making-you-obese), (https://www.theguardian.com/commentisfree/2023/apr/07/plastic-packaging-obesity-hormone-disruption) e perchè farsi scappare una simile opportunità? 


Questi titoloni, hanno preso spunto da 3 studi apparsi sulla stessa rivista (https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S000629522200106X), (https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0006295222001083), ( https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0006295222001095) che correlavano l’impatto degli obesogeni sull’obesità. Il vocabolo “obesogeno” fu introdotto nel 2006 da due ricercatori della Università della California - Irvine (https://academic.oup.com/endo/article/147/6/s50/2878376?login=false) e sono “una tipologia di sostanze chimiche in grado di alterare il sistema endocrino”, molto simili agli ormoni naturali e che possono interferire con le normali funzioni dell’organismo. Attualmente si sa che circa un migliaio di sostanze chimiche hanno, o si sospetta che abbiano effetti deleteri sul sistema endocrino. Di queste, una cinquantina, possono influenzare il tasso metabolico basale (la quantità di energia, per unità di tempo, a riposo, di cui una persona ha bisogno per mantenere le funzioni corporee), la composizione del microbioma o gli ormoni che influenzano il nostro comportamento alimentare. Gli obesogeni si possono trovare nei cosmetici, nelle creme solari, nei conservati, nei farmaci, in molti inquinanti ambientali, nella polvere, nell’acqua, negli alimenti lavorati….and so on, ma le microplastiche…ah le microplastiche… non potevano di certo mancare all’appello lanciato dai media. 


Diversi studi sottoposti a revisione paritaria, riportano evidenze abbastanza convincenti di come gli obesogeni influenzino lo sviluppo di cellule adipose e muscolari ma stiamo parlando di studi condotti in laboratorio su colture cellulari, tuttavia, la dimostrazione che possano svolgere un ruolo significativo nel favorire l’obesità, non è altrettanto convincente. Una discreta quantità di studi su questo argomento mostra una correlazione favorevole tra l’esposizione all’obesogeno ed un elevato indice di massa corporea (BMI), in modo particolare in gravidanza o durante l’infanzia. Ma siamo sempre alle solite: solo perchè una correlazione è statisticamente significativa, ciò non significa che l’effetto sia così manifesto o diffuso, per cui, allo stato attuale possiamo parlare solo di congetture.

In una recente intervista, Robert Lustig (Professore emerito di Pediatria, Divisione di Endocrinologia presso l'Università della California, San Francisco (UCSF) e specializzato nel campo della neuroendocrinologia) ha dichiarato: “Se dovessi indovinare, sulla base di tutto il lavoro e le letture che ho fatto, direi che gli obesogeni, potrebbero incidere nel causare obesità, per un 15/20% ed è già molto”. Infatti ci sono anche studi che non hanno trovato alcuna correlazione.

Come accade sempre più spesso, i titoli dei giornali o le notizie trasmesse in TV, sono di maggior presa rispetto alle prove, quando si affrontano determinati argomenti che, al contrario, necessiterebbero di approfondimenti e non di due minuti di chiacchiere utili solamente nell’insinuare il solito, immancabile dubbio con relative preoccupazioni.


domenica 12 maggio 2024

ALZHEIMER, SCOPERTA NUOVA ANOMALIA GENETICA: GLI INDIVIDUI CON DUE COPIE DEL GENE APOE4 POTREBBERO SVILUPPARE PER PRIMI LA MALATTIA.


Attualmente, la stragrande maggioranza dei casi di Alzheimer non riconosce una causa chiaramente identificabile. Per questo motivo i ricercatori si stanno dedicando a studiarne più approfonditamente la genetica, dal momento che sembrerebbe che in poco meno di un quinto dei pazienti tale patologia riconoscerebbe una causa genetica. Ma da dove nasce questo “nuovo” paradigma? ( come leggerete le “” non sono casuali). Per farla breve, prende spunto da un recente studio (https://www.nature.com/articles/s41591-024-02931-w) condotto dal Dr. Juan Fortea, direttore della Sant Pau Memory Unit a Barcellona. Basterebbe leggere queste sue considerazioni: ...“Molto spesso sosteniamo di non conoscere la causa del morbo di Alzheimer, ma, detto ciò, questa nuova concettualizzazione proposta riguarda una piccola minoranza di persone per la quale in circa il 15-20% dei casi, potremmo riconoscere una causa, e la causa è insita nei geni”…per comprendere di quanto potrebbe essere ampliata la portata degli sforzi per sviluppare nuovi trattamenti, tra cui la terapia genica, dal momento che quelli attualmente a disposizione non brillano certamente di luce propria, per mettere in atto e progettare inediti studi clinici.

In parole più semplici, moltissime persone potrebbero beneficiare di una diagnosi di Alzheimer prima di sviluppare qualsiasi sintomo di declino cognitivo. 

I ricercatori sanno che ereditare una copia della variante genetica denominata APOE4 aumenta il rischio di sviluppare l'Alzheimer e che le persone con due copie, ereditate da ciascun genitore, manifestano un rischio notevolmente maggiore. Lo studio sopra menzionato prendendo in esame un gruppo notevolmente più numeroso rispetto a quelli di studi precedenti, conducendo un’ analisi comprendente un campione di 3.297 cervelli donati per la ricerca - analisi patologica - e 10.039 persone per lo studio clinico ed indagando i parametri di oltre 500 persone con due copie di APOE4, ha messo in luce come quasi la totalità di questi pazienti avessero sviluppato l’Alzheimer. Secondo i ricercatori dunque, si potrebbe concludere che due copie di APOE4 non costituirebbero più un semplice fattore di rischio, bensì una vera e propria causa. 

Prima di approfondire lo studio, è utile far notare come si sia a conoscenza di tre varianti: 

  • l’APOE3, quella più comune, che sembra non aumentare né diminuire il rischio di sviluppare la patologia (circa il 75% della popolazione generale presenta una copia di APOE3 e più della metà della popolazione generale ne ha due copie). 
  • l’APOE2 che è relativamente rara con un 5% di incidenza nella popolazione e considerata come una variante neuro-protettiva tanto che a Marzo del 2019 Ronald Crystal, Professore e Direttore del Dipartimento di Medicina Genetica presso Weill Cornell Medicine ha iniziato un trial clinico di Fase 1 (https://clinicaltrials.gov/study/NCT03634007), nell’ambito di una procedura di terapia genica, con lo scopo di veicolare una copia del gene E2 (APOE2) che, grazie a un vettore virale adeno-associato (AAVrh.10h), raggiungerebbe le cellule del cervello permettendo la sintesi della apolipoproteina E2 la quale, secondo quanto finora osservato, ridurrebbe il rischio di sviluppare l’Alzheimer. 
  • In ultimo, appunto, la variante APOE4.


Quanto all’”arsenale” terapeutico ad oggi disponibile per il trattamento dell’Alzheimer, non è che sia così particolarmente ben fornito. Di Aducanumab ho già ampiamente scritto qui : https://ilgeneegoista.blogspot.com/2021/06/alzheimer-fda-approva-aducanumab-ci.html e qui : https://ilgeneegoista.blogspot.com/2022/04/aducanumab-della-serie-metterci-una.html, sino all’inevitabile conclusione: “Biogen interrompe lo sviluppo di Aducanumab e punta su Lecanemab alias Leqembi” https://www.farmacista33.it/industria-e-mercati/28469/alzheimer-biogen-interrompe-sviluppo-di-aducanumab-e-punta-su-lecanemab.html.

A conti fatti però, sembra che anche questa “puntata” su Leqembi di Eisai and Biogen , un anticorpo monoclonale che riconosce come bersaglio la proteina  beta-amiloide che si aggrega a formare placche nel cervello delle persone affette dal morbo di Alzheimer sia particolarmente rischiosa (https://www.fiercepharma.com/pharma/eisai-biogens-injectable-leqembi-delayed-fda-asks-more-data): “Eisai, Biogen's injectable Leqembi delayed as FDA asks for more data” e non se la passa meglio di certo il Donanemab di Eli Lilly, la cui approvazione era prevista entro Marzo, mentre l’FDA ha invece deciso di convocare un panel di esperti indipendenti per valutarne efficacia e sicurezza (https://www.reuters.com/business/healthcare-pharmaceuticals/us-fda-delays-lilly-alzheimers-drug-decision-calls-advisory-panel-2024-03-08/). La decisione dovrebbe arrivare entro il 10 Giugno 2024 (https://www.dailyhealthindustry.it/eli-lilly-il-10-giugno-la-fda-decide-su-donanemab-alzheimer-ID31262.html).


Ma ritorniamo allo studio in questione. Questo ha rilevato che i pazienti possono sviluppare l’Alzheimer ad una età relativamente giovane: oltre il 95% di loro presentava marcatori biologici associati alla malattia all’età di 55 anni mentre tale patologia tende a manifestarsi più comunemente dopo i 65 anni, soprattutto tra la i 70 e gli 80 anni. Infatti quasi tutti i pazienti presentavano un accumulo della proteina beta amiloide (causa della formazione di placche nel cervello responsabili del malfunzionamento della trasmissione fra sinapsi nelle fasi più precoci della malattia) sviluppando sintomi di declino cognitivo prima o all’età di 65 anni, quindi molto precocemente rispetto alla maggior parte delle persone senza la variante APOE4.

Dal punto di vista statistico, quindi, le persone con una copia della variante genetica APOE4 rappresenterebbero circa il 15-25% della popolazione generale e circa il 50% dei pazienti affetti dal morbo di Alzheimer, mentre le persone con due copie, note come omozigoti APOE4, rappresenterebbero dal 2 al 3% della popolazione generale, e tra queste, il 15-20% svilupperebbero la patologia. 


Ma come spesso accade per molti studi, possono emergere dei limiti, ed allora vediamoli. La maggior parte dei pazienti inclusi nello studio era di origine europea e sebbene due copie di APOE4 aumentino notevolmente il rischio di sviluppare l’Alzheimer in altre etnie, i livelli di rischio differiscono. Tanto per dirne una, i bianchi con due copie della variante APOE4 presentano un rischio di sviluppare la patologia 13 volte superiore rispetto ai bianchi con due copie di APOE3, mentre i neri con due copie di APOE4 manifestano un rischio 6,5 volte maggiore rispetto ai neri con due copie di APOE3 (https://www.advisory.com/daily-briefing/2024/05/08/alzheimers-risk).


In conclusione, questo studio pone la domanda se sia opportuno che le persone debbano sottoporsi a test specifici per scoprire se siano portatori della variante APOE4 visto che presentare una copia di APOE4 continuerebbe a essere considerato un fattore di rischio non sufficiente a causare l'Alzheimer. Domanda più che legittima, a mio avviso, almeno sino a quando, soprattutto in assenza di sintomi, non vengano resi disponibili trattamenti farmacologici efficaci per i soggetti con due copie di APOE4 per sviluppare in modo adeguato molecole capaci di impedire lo sviluppo della patologia. E per “adeguato” mi riferisco al presupposto fondamentale (per sapere esattamente cosa si sta somministrando alle persone…dettaglio non da poco eh!?…visti alcuni precedenti) per cui sia chi si impegni per primo nella ricerca e chi produca dei batch clinici, usino lo stesso metodo analitico per rilasciare il materiale destinato ai trial di fase I e II.


Fonti: 

https://www.nature.com/articles/s41591-024-02931-w

https://www.accessdata.fda.gov/scripts/cder/daf/index.cfm?event=overview.process&ApplNo=761269

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2090123221001351

https://www.alzforum.org/news/conference-coverage/small-trial-gene-therapy-spurs-apoe2-production

https://jamanetwork.com/journals/jamaneurology/fullarticle/2811630

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3109410/

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC9387748/

https://clinicaltrials.gov/study/NCT03634007

https://ilgeneegoista.blogspot.com/2021/06/alzheimer-fda-approva-aducanumab-ci.html 

https://ilgeneegoista.blogspot.com/2022/04/aducanumab-della-serie-metterci-una.html

https://www.farmacista33.it/industria-e-mercati/28469/alzheimer-biogen-interrompe-sviluppo-di-aducanumab-e-punta-su-lecanemab.html

https://www.fiercepharma.com/pharma/eisai-biogens-injectable-leqembi-delayed-fda-asks-more-data

https://www.reuters.com/business/healthcare-pharmaceuticals/us-fda-delays-lilly-alzheimers-drug-decision-calls-advisory-panel-2024-03-08/

https://www.dailyhealthindustry.it/eli-lilly-il-10-giugno-la-fda-decide-su-donanemab-alzheimer-ID31262.html

https://www.advisory.com/daily-briefing/2024/05/08/alzheimers-risk


martedì 7 maggio 2024

MA DAVVERO C’E’ CHI VIVE “FUORI” DALLA REALTA’, UNA REALTA’ ASSOLUTAMENTE INDISCUTIBILE PER QUALCUNO CHE TUTTO SA E TUTTO MOVE?


Formulare l’affermazione che la realtà non esiste ha iniziato ad avere un suo senso da quando i fisici hanno iniziato a spremere le loro meningi per rendere meno “scontata” l’algebra lineare. Eric Cavalcanti, un fisico dedito allo studio della meccanica quantistica (il regno dell’infinitamente piccolo), ha proposto il seguente paradosso (https://www.space.com/quantum-paradox-throws-doubt-on-observed-reality.html): “Se un albero cade in una foresta e non c’è nessuno a sentirlo, fa rumore? Forse no, dicono alcuni”, dunque su cosa si basa questa risposta? (contestualmente, se qualcuno si trovasse in quel bosco per ascoltarlo e se chi ha risposto di no pensasse che questa circostanza significasse ovviamente che un un suono si sia prodotto, allora si dovrebbe rivedere la risposta alla domanda iniziale). 

Il tutto ha inizio nel 1961, quando le basi della meccanica quantistica erano già state delineate e confermate sperimentalmente senza però ancora riuscire a dare un senso a cosa significasse effettuare una misurazione nell’ambito della meccanica quantistica stessa, grazie al fisico ungherese Eugene Wigner. Nella meccanica quantistica ogni cosa è descritta da una funzione d’onda indicata con la lettera Ψ (psi) e la variazione di questa funzione d’onda nel tempo si ricava dalla equazione di Schrödinger. Sappiamo che la funzione d’onda in sé non è misurabile e che da essa si possono semplicemente calcolare le probabilità con cui ottenere i risultati.  

Proviamo con un esempio: stabilire la probabilità che una particella si trovi in un posto anziché in un altro. Si potrebbe prevedere se una particella colpisca con diversi lanci il lato Sx o Dx di uno schermo in misura pari al 50% per ogni lato. Prima che la particella colpisca lo schermo, ovviamente, non è ne a Sx ne a Dx. Tuttavia una volta misurato il risultato dei lanci, sapremo dove si trova con un 100% di probabilità e ciò implica che dopo ogni misurazione è necessario aggiornare la funzione d’onda (“riduzione” o “collasso” della funzione). 

Ma il problema è che la meccanica quantistica non ci dice che cosa sia una “misura” ed allora ritorniamo ad Eugene Wigner, il quale illustrò questo problema grazie ad un esperimento mentale noto come “l’amico di Wigner”. Supponiamo che l’amico di Wigner, Tizio, si trovi in un laboratorio per fare un esperimento come quello sopra descritto, mentre lo stesso Wigner attende fuori dalla porta del laboratorio. All’interno di questo, le particelle colpiranno lo schermo a Sx e a Dx con una probabilità del 50%. Quando Tizio misura le particelle la funzione d’onda collassa a Sx o a Dx dopo di che apre la porta a rivela a Wigner cosa ha misurato. Cosa capirebbe Wigner dall’esperimento? Solamente se le particelle si sono posizionate a Sx o a Dx. Ciò significa che, secondo la meccanica quantistica, Wigner deve presumere che prima di sapere che cosa è successo, Tizio si trovi in una doppia condizione (sovrapposizione). Una in cui le particelle siano andate a Sx e lui è al corrente che ciò sia avvenuto e l’altra in cui le particelle siano andate a Dx e Tizio sa che sono andate a Dx. Il problema quindi è che Tizio è consapevole di non aver mai vissuto una doppia condizione ( Sx e Dx) mentre Wigner non lo sa.


Ancora un esempio, ancor più esplicativo ed affascinante, relativo all’esperimento de “l’amico di Wigner” relativo al paradosso del gatto vivo, morto o addirittura vivo e morto di Erwin Schrödinger. Quando guardiamo un gatto o è vivo o è morto ma non entrambi. Ma cos’è che fa scomparire la possibilità di un gatto vivo e morto? Forse una…osservazione del fenomeno?

Per prima cosa chiariamo che cosa si intenda per paradosso del gatto di Erwin Schrödinger. Egli postula che all’interno di una scatola d’acciaio vi sia un gatto vicino ad una fialetta di veleno in forma gassosa, una piccola quantità di sostanza radioattiva ,un contatore Geiger ed un martelletto. Ad un certo punto, con una probabilità del 50%, la sostanza radioattiva inizia una fase di decadimento che viene rilevato dal contatore Geiger il quale a sua volta determina un input per cui il martello va a rompere la filetta di veleno uccidendo il gatto. Ora, secondo Schrödinger, da quando il gatto viene messo nella scatola ed inizia l’esperimento, ci si trova nella condizione per cui non si può calcolare con esattezza quando inizia il decadimento della sostanza radioattiva ed a ciò conseguirebbe che, potenzialmente, la fiala di veleno potrebbe essere allo stesso tempo rotta o non rotta ed il gatto sia vivo che morto, sino a quando, aprendo la scatola, si procede con una osservazione di quanto avvenuto.

Correliamo ora l’esperimento mentale de “l’amico di Wigner” con il paradosso del gatto di Erwin Schrödinger. In questo caso ci troviamo di fronte a due “sistemi” differenti: il sistema “scatola”, che contiene il gatto di Schrödinger e la fiala di veleno, e il sistema “laboratorio”, all’interno del quale troviamo Tizio, l’amico di Wigner, dal momento che quest’ultimo ipotizza che mentre lui è assente il suo amico compia l’esperimento sopra descritto per cui Wigner scoprirà se il gatto è vivo o morto solo al suo ritorno.

Il fulcro di questo esperimento dunque si può riassumere con la seguente domanda: il sistema laboratorio sarà caratterizzato da una  doppia condizione gatto vivo/amico contento + gatto morto/amico triste per poi propendere per una delle due nel momento in cui il fisico, assumendo quindi il ruolo di osservatore, conoscerà il risultato, oppure Wigner penserà che la doppia condizione (gatto vivo/amico contento + gatto morto/amico triste) si sia già dipanata prima per il fatto che l’amico avesse compiuto l’esperimento? 

Traducendo il tutto, Wigner pensò a questo esperimento con lo scopo di dimostrare che alla base della misurazione in meccanica quantistica sia necessaria una condizione di conoscenza, ovvero sembra che sia l’osservatore a rendere le cose reali, sia che si tratti di Wigner osservatore che l’amico del fisico che aprendo il sistema scatola mentre lui è lontano svolge a sua volta il ruolo di osservatore del sistema scatola stesso. 


Dunque, la realtà sembra essere soggettiva. Nella interpretazione standard della meccanica quantistica, l’aggiornamento della funzione d’onda, quella che prima abbiamo definito come “riduzione” o “collasso” della funzione non è un processo fisico. E’ solo una elaborazione matematica (più in la vedremo però non solo) delle proprie conoscenze che si attua dopo avere appreso qualcosa. Nel 2016 Daniela Frauchinger e Renato Renner hanno proposto un altro esperimento mentale noto come “Scenario esteso dell’amico di Wigner” (https://www.nature.com/articles/s41467-018-05739-8). In questo esperimento ritroviamo due Wigner, ciascuno dei quali ha un amico (Wigner 1 e Wigner 2 + Tizio 1 e Tizio 2) ed i due ricercatori concludono che la meccanica quantistica “non può descrivere in modo coerente l’utilizzo di se stessa” dal momento che ci si potrebbe imbattere in “guai” seri se nei panni di uno dei due Wigner si provasse ad applicare la meccanica quantistica per comprendere come Tizio 1 e 2 l’abbiano applicata. In conclusione, parlando di realtà e meccanica quantistica possiamo essere d’accordo sul fatto che questa sia letteralmente incoerente e che debba essere sostituita con qualcosa di meglio in grado di descrivere fisicamente cosa accade. 


Quindi, creiamo la realtà con la nostra mente? Si potrebbe pensare che la risposta sia ovviamente NO, ma attenzione. A conti fatti parrebbe che il problema se siamo in grado di creare la realtà sia una questione semantica. Se definiamo la realtà come ciò che è indipendentemente dalla nostra mente, allora ovviamente non la creiamo con la nostra mente perchè in tal caso non sarebbe indipendente, isn’t it?

In fin dei conti, la “battuta” secondo cui la realtà è ciò che non scompare se smettiamo di crederci, non dovremmo utilizzarla per definire ciò che è reale perchè se definiamo che qualcosa ha fondamenti certi ed inoppugnabili, allora diventa superfluo domandarsi se abbia quei fondamenti. Sarebbe come chiedersi se le auto bianche sono bianche. 

Per dare un senso alla domanda se creiamo la realtà, dovremmo quindi utilizzare la parola REALTA’ in riferimento a ciò che le persone pensino che significhi, insomma una questione più filosofica che fisica, ma solo in apparenza. 

Il problema più grande con la realtà è che non possiamo sapere che esiste qualcosa anche in assenza di noi (per scoprirlo bisognerebbe smettere di esistere e controllare se c’è ancora…non propriamente una cosa auspicabile, scongiuri permettendo).

A rigor di logica quindi l’unica cosa di cui una persona può essere sicura che esista… è se stessa. Questa è l’origine del “Penso dunque sono” di Cartesio.

In filosofia, ma non solo, si parla di problema del “solipsismo” per cui le uniche informazioni con cui si deve lavorare sono quelle che arrivano al proprio cervello. Ci dice che anche se esistesse qualcosa come la realtà, gli input del cervello potrebbero rappresentarla in svariati modi, quindi come si fa a sapere cosa è reale? 


Bene, facciamo un esempio molto pratico quanto fisico nonché conclusivo e dirimente. Il nostro cervello ed i nostri sensi non si sono evoluti per darci una rappresentazione fedele della realtà ma solamente per farcela saggiare. Cosa voglio dire? Prendiamo ad esempio i petali di un papavero: chiunque direbbe che sono rossi ma potrebbe non essere lo stesso colore che tutti vediamo anche se tutti siamo d’accordo che siano rossi perchè tutti quanti, quando guardiamo quei petali, abbiamo una stessa percezione…ma quella percezione, piaccia o meno, non esiste in natura! Si tratta infatti semplicemente di una rielaborazione del nostro cervello (che a meno di non parlare di un ipotetico ET, è per tutti uguale) della lunghezza d’onda della radiazione elettromagnetica riflessa dalla superficie dei petali. Tale radiazione, sotto forma di fotoni, viene raccolta dai nostri occhi incidendo sulla nostra retina attivandone i fotorecettori i quali la trasformano in una sorta di segnale tradotto in onde elettriche che viene raccolto dal nostro cervello a livello della corteccia visiva primaria localizzata nella corteccia occipitale o lobo occipitale per poi essere dirottato in altre zone cerebrali e sottoposto ad altre elaborazioni che qui è superfluo elencare. Tutto ciò si traduce nel fatto che quello che noi definiamo il colore rosso, in se, non è una proprietà che realmente appartiene al petalo del papavero ma è qualcosa che viene proposto dal nostro cervello. 


Ritornando quindi a tutto quanto esposto all’inizio del post, aggiungendo queste ultime informazioni, si può concludere che se esistesse un osservatore esterno al nostro cervello e quindi la possibilità di osservare la realtà al di fuori del nostro cervello e quindi non usando i nostri sensi, questa ci apparirebbe in modo totalmente diversa. E ritornando all’ipotesi dell’esistenza di un presunto ET, questo potrebbe essere dotato di sistemi sensoriali che elaborano le stesse informazioni in modo totalmente diversa dal momento che non esiste alcuna “regola” che provi che le radiazioni elettromagnetiche debbano essere elaborate esclusivamente come colori. In parole semplici, ci troviamo di fronte ad una vera e propria dissociazione tra il segnale che arriva in ingresso e la sua elaborazione, ossia noi elaboriamo i segnali ma quale sia la vera natura di questi segnali al di fuori della nostra esperienza, noi non lo sappiamo. La realtà che noi elaboriamo con i nostri sensi quindi…non esiste.


mercoledì 1 maggio 2024

ATLETA TRANSGENDER…ANCORA POLEMICHE…ANCHE IN TV.

 



Posso capire che sia piuttosto intrigante chiedersi a livello mediatico soprattutto se sia “giusto” osservare, per esempio, un’atleta trans come la nuotatrice americana Lia Thomas o più recentemente la ragazza ripresa nel video, gareggiare contro donne tutte non transgender ma il compito del giornalismo, televisivo o cartaceo che sia, dovrebbe essere quello di chiarire e spigare senza instillare il tarlo del dubbio e della iniquità, anziché dedicarsi alla cucina per preparare “minestroni” e, come ho già avuto modo di scrivere, “più leggo è più mi pare evidente che per molti l’unico sesso “buono” da prendersi in considerazione sia quello che si pratica da solo, senza ovviamente rinunciare ad un resistente guanto in nitrile per precauzione, per poi scoprire di aver però solo fatto un volo con la fantasia”. 


Per cui, fuori dai denti, ma quale tipo di messaggio si vorrebbe realmente far passare esattamente?

La maggior parte degli esseri umani può essere biologicamente classificata come maschio o femmina e le differenze tra i due sessi sono particolarmente evidenti anche solo prendendo in esami gli organi interni ed esterni. Queste differenze si evidenziano grazie all’espressione della ventitreesima coppia di cromosomi, XY per gli uomini e XX per le donne. Tutto ok sino a questo punto?…spero di sì.

Capita però che questa classificazione biologica tra i due sessi non sempre sia totalmente esaustiva. Esiste difatti una varietà sorprendentemente ampia di cosiddette condizioni “intersessuali” in cui l’espressione biologica può essere ambigua o più propriamente non allineata con l’espressione cromosomica di cui sopra. Diversi esempi sono realmente sbalorditivi. 

Alcuni ricercatori indiani nel 2014 hanno esposto il caso di un uomo settantenne e padre di 4 figli che venne sottoposto ad un intervento chirurgico avendo i medici rinvenuto la presenza sia di un utero che delle tube di Falloppio (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4276263/) nonostante possedesse sempre la ventitreesima coppia di cromosomi  XY maschile. Ed ancora, come non menzionare il caso della ostacolista spagnola María José Martínez-Patiño che solo dopo i 25 anni di età venne a conoscenza, pur essendo dotata di genitali femminili, di possedere un corredo cromosomico XY oltre alla presenza di testicoli interni? Come risultato, quando il tutto venne alla luce, le fu vietato di competere alle Olimpiadi del 1986.

Questi esempi rientrano nel novero dei disturbi DSD o DSS ossia disturbi della differenziazione sessuale. Certamente tali disordini sono rari, ma non così rari come si potrebbe pensare infatti secondo diverse stime rilevabili in letteratura, ne sono affetti un numero di persone comprese in una forbice tra lo 0,1% ed il 2% e tanto per dare un’idea dimensionale, il disturbo bipolare secondo le stime del NIMH, ha una incidenza compresa tra l’1% ed il 2% (https://www.nature.com/articles/nrurol.2012.182). Ciò significa, per esempio, che negli USA ci sono tra circa 300.000 e SETTE MILIONI di persone definibili “intersessuali” mentre a livello globale tra OTTO e CENTOSESSANTA MILIONI. 


Ovviamente esistono delle criticità nel proporre queste stime dal momento che la definizione di condizione intersessuale risulta piuttosto ambigua poiché si deve considerare che non tutte le persone intersessuali sono transgender, così come tutte le persone transgender non sono intersessuali. 

Il quesito su come comportarsi con le persone intersessuali nelle competizioni sportive precede quindi storicamente la più recente  domanda  di cosa fare con gli atleti trans e María José Martínez-Patiño ne costituisce un precedente esplicativo per cui formuliamo qualche considerazione. La sua condizione è definita 46, XY DSD e, se consideriamo la popolazione generale, si verifica una volta ogni 20.000 nascite. Le donne che ne soffrono presentano elevati livelli di testosterone (ormone maschile) e uno studio condotto da ricercatori europei nel 2014 ha evidenziato come nelle atlete ai massimi livelli agonistici, l’incidenza della 46, XY DSD nella nostra popolazione di atleti sia di circa 7 su 1000, ovvero 140 volte superiore a quanto previsto per la popolazione generale (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/25137421/). Il testosterone favorisce la crescita muscolare, rafforza la struttura ossea e aumenta i livelli di emoglobina (Hb) nel sangue, favorendo il trasporto di ossigeno e sappiamo benissimo che formulazioni sintetiche di testosterone spesso vengono utilizzate come doping. Comunque, María José Martínez-Patiño, dopo essere stata esclusa dalle Olimpiadi ha presentato ricorso sostenendo che non traeva alcun vantaggio dai suoi elevati livelli di testosterone dal momento che la sua condizione 46, XY DSD, caratterizzata da una insensibilità completa agli androgeni, produce sì l’ormone AMH (ormone antimulleriano) e testosterone che però non è in grado di agire in alcun modo ed infatti il provvedimento venne revocato.

Ovviamente esistono altre condizioni che possono determinare alti livelli di testosterone nelle donne e per complicare ulteriormente la questione, esiste un’ampia variazione naturale dei livelli di testosterone sia tra gli uomini che tra le donne e poiché le donne con livelli naturalmente elevati di tale ormone tendono ad avere buoni risultati nello sport oltre al dato di fatto di risultare sovra-rappresentate tra gli atleti, la presenza del testosterone negli atleti di sesso maschile e femminile risulta non linearmente ben definita.

Un articolo pubblicato nel 2014 da ricercatori britannici ed irlandesi (https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/cen.12445) ha evidenziato  i profili ormonali di circa 700 atleti ad alto livello praticanti 15 sport diversi. Ne è emerso che il 16,5% degli uomini possedeva bassi livelli di testosterone mentre livelli elevati sono stati riscontrati nel 13,7% delle donne.  

Rammento che i vantaggi prodotti dal testosterone sono particolarmente evidenti nelle discipline che richiedono un maggiore sforzo da parte della parte superiore del corpo mentre incidono meno per le prove di resistenza.


Ora, fatta questa debita chiarificazione, ritorniamo a bomba sul discorso degli atleti trans. Le persone transgender non si identificano con il loro sesso al momento della nascita. Tralasciando le condizioni intersessuali, si può semplificare che un uomo trans (donna in transizione per diventare di sesso maschile) sia nato biologicamente donna e una femmina trans (uomo in transizione per diventare di sesso femminile) sia nata biologicamente maschio. Le persone non trans, sono comunemente definite “cis”.

Sappiamo che una parte delle persone trans può sottoporsi ad un intervento chirurgico e/o ad una terapia ormonale ma i risultati del trattamento di transizione differiscono notevolmente a seconda che sia avvenuto PRIMA o DOPO la pubertà. Durante la pubertà assistiamo ad aumento della statura di 20-25 cm per la femmina e di 25-30 per il maschio il quale sviluppa anche più muscoli. I cambiamenti fisici durante la pubertà sono in parte irreversibili e la successiva transizione non li annullerà completamente. 

Nel 1990 un seminario indetto dalle Federazioni Mondiali di Atletica Leggera accomandava che chiunque fosse stato sottoposto ad un intervento chirurgico per il cambio di genere prima della pubertà fosse accettato a competere con il nuovo sesso e la cosa non risulta affatto controversa. Il lato controverso è invece come comportarsi con coloro che si sono sottoposti a transizione dopo la pubertà. 

Il Comitato Olimpico Internazionale è sempre stato all’avanguardia nell’approvazione dei regolamenti in questo ambito. Nel 2004 ha stabilito che gli atleti transgender possono competere 2 anni dopo l’intervento chirurgico e nel caso si fosse fatto ricorso alla terapia ormonale. Nel 2021 il Comitato ha emanato una normativa che consente alle Federazioni Internazionali di decidere i propri criteri di ammissibilità, sia per gli atleti transgender che intersessuali (https://stillmed.olympics.com/media/Documents/Beyond-the-Games/Human-Rights/IOC-Framework-Fairness-Inclusion-Non-discrimination-2021.pdf#_ga=2.219716894.621299853.1686571450-594927581.1678187184). 

Questo significa che non esiste una regola semplice ed univoca per tutte le discipline. 


Ed allora ritorniamo al quesito se dopo un trattamento ormonale sia giusto per le donne transgender gareggiare con le donne cisgender. Nel 2019 un team di ricercatori europei di Belgio, Norvegia e Paesi Bassi ha misurato il cambiamento nella “forza di presa” (capacità di stringere un oggetto) dopo un anno di terapia ormonale in 250 uomini e donne transgender. Si è evinto che nelle donne trans la forza di presa diminuiva di 1,8 Kg, mentre aumentava negli uomini transgender di 6,1 Kg. Negli uomini trans (donne in transizione per diventare di sesso maschile), ma non nelle donne trans (uomini in transizione per diventare di sesso femminile), questa variazione della forza di presa era associata al cambiamento della massa corporea magra. A questo punto potremmo sostenere che la terapia ormonale sia più performante per gli uomini trans (donne in transizione per diventare di sesso maschile) rispetto alle donne trans (uomini in transizione per diventare di sesso femminile (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/31247588/#:~:text=In%20transmen%2C%20increase%20in%20grip,%2D0.000%3B%20%2B0.009).

Ma andiamo avanti. Un altro team di ricercatori svedesi ha monitorato 11 donne e 12 uomini transgender prima e sino a dopo la fine della terapia ormonale (https://www.biorxiv.org/content/10.1101/782557v1.full.pdf). Ciò che è emerso è stato che il volume dei muscoli della coscia è diminuito del 5% nelle donne trans con una diminuzione del 4% dell’area della sezione trasversale del quadricipite mentre la densità muscolare è rimasta invariata, mantenendo più o meno gli stessi livelli di forza. Negli uomini trans invece il volume dei muscoli della coscia è aumentato del 15%. Anche l’area della sezione trasversale è aumentata del 15%, la densità muscolare del 6% ma al contrario del gruppo femminile transgender è stato dimostrato un aumento dei livelli di forza. Anche analizzando questi dati dunque pare che la terapia ormonale sia più performante per gli uomini trans (donne in transizione per diventare di sesso maschile) rispetto alle donne trans (uomini in transizione per diventare di sesso femminile). Di studi come questi ne esistono a bizzeffe, tanto è vero che a Marzo del 2021 una meta-analisi (per farla semplice analizzare più studi condotti su uno stesso argomento al fine di ottenere una sintesi con metodologie statistiche) ha preso in esame 24 studi, concludendo che anche dopo 3 anni di terapia ormonale  i valori di forza, massa magra e area muscolare nelle donne transgender erano maggiori rispetto a quelle delle donne cisgender (https://bjsm.bmj.com/content/55/15/865). Questi risultati però non sono direttamente applicabili agli atleti poiché nella popolazione generale mentre le donne intenzionate a cambiare sesso sono incentivate ad aumentare la massa muscolare, gli uomini in transizione per diventare donne, si applicano per diminuirla. Sostanzialmente questi studi concordano, chi più chi meno, sul fatto che la terapia ormonale agisce più rapidamente per le donne in transizione per diventare di sesso maschile (uomini transgender) rispetto agli uomini in transizione per diventare di sesso femminile (donne transgender) e ciò non si esaurisce del tutto dopo 3 anni.

A tutte queste riflessioni, occorre aggiungere che non si è in possesso di molti dati circa gli effetti di questi trattamenti ormonali nel lungo periodo. Una pubblicazione brasiliana del 2021 sostiene che dopo 15 anni le differenze tra gli uomini in transizione per diventare di sesso femminile (donne trans) e le femmine cisgender siano completamente scomparse (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC8090355/). Leggendola, si comprende comunque, come si trattasse di uno studio molto piccolo con solo 8 persone arruolate e volendo fare una battuta, se si pretende che un atleta aspetti 15 anni per partecipare alle Olimpiadi, sarà poi troppo vecchio per potervi partecipare :-)).


Detto tutto ciò, non perdiamo di vista quanto siano fondate le polemiche che accompagnano l’immagine del post a proposito di quanto possa essere ingiusto veder gareggiare atlete trans con atlete cisgender. Dai dati sembra evidente che le donne trans e ribadisco quindi uomini in transizione per diventare di sesso femminile, mantengano un certo vantaggio anche dopo alcuni anni di terapia ormonale. Immagino che molti pensino che non sia giusto, nel senso che nessun tipo di estenuante allenamento da parte delle donne cis potrà compensare i vantaggi derivanti da ciò che accade durante la pubertà maschile. Ma le competizioni atletiche non sono mai state “giuste” in questo senso. Tanto per cominciare, per una prestazione atletica non è il sesso ad essere il fattore più importante bensì l’età. Essere maschio è solo uno dei diversi vantaggi innati per determinati tipi di sport (Bolt ha gambe molto lunghe, Phelps piedi molto grandi, alcuni giocatori di basket altezze esagerate). La seconda foto del post mostra, ad esempio, la squadra di basket femminile under 16 americana prima dell’incontro con quella di El Salvador: incontro terminato 114 a 19! Qualcuno si sognerebbe di polemizzare se sia stato giusto o sbagliato? Non dimentichiamo inoltre che mi sto riferendo solo a differenze chiaramente visibili; ci sono anche altri fattori come la densità ossea, la gittata cardiaca o il volume polmonare che sono in parte determinati geneticamente indipendentemente dal sesso. Personalmente io non avrei mai avuto la possibilità di diventare un sollevatore di pesi a livello Olimpico…ma non mi sono mai domandato se fosse giusto o meno. E questo perchè gli atleti a livello agonistico rappresentano una condizione biologica massima per non dire esasperata e l’equità non mai stata una prerogativa di un determinato tipo di competizioni. 


Dovremmo inoltre considerare un altro aspetto, ossia che queste competizioni dovrebbero anche intrattenere. Questo fatto potrebbe rappresentare il motivo per cui la ricercatrice Joanna Harper, pur essa un’atleta trans, ha proposto di parlare o scrivere mediaticamente di “competizioni significative” piuttosto che di “competizioni leali”. Storicamente uomini e donne sono stati separati nel corso dei vari eventi sportivi per rendere la competizione, ovviamente, meno noiosa. Per lo stesso motivo in alcune discipline come la boxe o il sollevamento pesi sono state introdotte sotto-categorie per cui potremmo allora domandarci se non sia il caso di aggiungere categorie aggiuntive per gli atleti trans ma se seguissimo tutta la logica di questa elucubrazione mentale, dovremmo arrivare alla conclusione che alla fine  l’unica persona con cui noi potremmo competere siamo noi stessi e punto. Oppure potremmo provare a misurare ogni singolo parametro che concorre alla riuscita della prestazione atletica in una singola disciplina per tentare poi di “aggiustarli” a proprio vantaggio. Ne deriverebbe che la persona che arriva ultima in una gara potrebbe risultare alla infine la vincitrice dopo aver “corretto” i parametri relativi al funzionamento della propria valvola cardiaca, ai livelli di testosterone, all’età, al volume polmonare leggermente ridotto ecc. ecc. ;-)). E questo sarebbe “giusto” nel senso che, in tal modo, tutti avrebbero la possibilità di vincere alla sola condizione di allenarsi duramente per poi però pagare lo scotto che sarebbero in pochi a vedere una tale competizione. 

Ma torniamo agli atleti transgender (senza tuttavia dimenticare per convenienza ideologica la condizione prima esposta di intersessualità). I ricercatori della Università della California, nel 2017 hanno stimato che la percentuale di persone transgender negli USA è dello 0,4% ed in Brasile dello 0,7%. Se questi numeri sono più o meno corretti, le persone transgender risultano allo stato attuale, sotto-rappresentate negli sport ad alto livello. Pensandoci bene, anche questo non sarebbe giusto ed è il motivo per cui sono dell’idea che le Associazioni sportive stiano facendo la cosa giusta, proponendo regolamenti basati sulle più affidabili dimostrazioni scientifiche disponibili e, finché gli atleti li rispettano, nessuno dovrebbe farsi carico di lanciare accuse di concorrenza sleale. Resta tuttavia il fatto che le Associazioni Sportive professionistiche dovranno presto affrontare un problema molto più grande. Piaccia o no, l’ingegneria genetica sta facendo passi da gigante e finché gli atleti potranno guadagnare un sacco di soldi procurandosi un vantaggio dall’impiego fraudolento di tale innovazione, ci sarà qualcuno che ne approfitterà in modo non etico. Chissà…tra meno di un secolo l’atletica professionistica non esisterà più se tali comportamenti contrari all’etica (per un uso scorretto rispetto a quanto di fantastico può svolgere lo sviluppo dell’ingegneria genetica per sconfigge definitivamente malattia attualmente incurabili) prevarranno.